«Quando mi chiedete cosa sia meglio fare ora, io dico che non ne ho idea. Ma fate qualcosa!». Pochi fatti alla pubblica opinione appaiono più sconcertanti di una nuda manifestazione di impotenza del potere. Eppure questa è la prova che Mario Draghi ha dato al parlamento Ue.
Il celebrato gendarme della moneta unica ha messo l’emiciclo di Bruxelles dinanzi a una prospettiva ormai tangibile: la morte dell’Unione europea, afflitta da una letale paralisi nel mezzo della guerra economica mondiale in corso.
Draghi ha iniziato il suo intervento con una sofferta confessione: redatto da appena pochi mesi, l’osannato rapporto sulla competitività che porta il suo nome è già obsoleto.
Il documento era stato scritto per suggerire all’Unione un nuovo modo di interpretare l’alleanza con gli Stati uniti, così da rendere il capitalismo occidentale più forte e più unito nel fronteggiare l’ascesa della Cina. Ma adesso che l’attacco principale all’Ue viene dalle sponde dell’America, il papello draghiano appare improvvisamente ingiallito.
Draghi ammette il problema.
Il ritorno di Trump alla Casa bianca segna il tentativo del capitalismo americano di scaricare la crisi del debito in primo luogo sugli alleati europei. L’obiettivo della nuova amministrazione Usa è di consentire alle imprese del vecchio continente di accedere al grande mercato americano solo a condizione che i paesi Ue paghino caro pegno.
In primo luogo, continuando ad assorbire debito statunitense anche nel momento in cui questo offrirà rendimenti risibili e si svaluterà insieme al dollaro. Una sottile forma di usurpazione degli antichi vassalli: la faccia più feroce dell’accumulazione originaria.
A tali condizioni, insistere nella ricerca di un’intesa economica anti-cinese con l’alleato americano appare sconsiderato anche a un atlantista della prima ora come Draghi. Da questa dura presa di coscienza l’ex banchiere centrale trae dunque le rettifiche al suo stesso rapporto.
La novità principale del Draghi-pensiero risiede nel considerare l’autonomia strategica dell’Ue non più semplicemente un’opzione vantaggiosa ma una vera e propria condizione per non soccombere. Il manuale di sopravvivenza verte in questo senso su un doppio movimento, liberista all’interno e imperialista all’esterno dei confini europei.
Il liberismo interno è presto spiegato. Con i venti di protezionismo che imperversano da ogni lato del mondo, pensare che il capitalismo europeo possa ancora dipendere dalle esportazioni per oltre il 50% del Pil sarebbe semplicemente un suicidio. La vecchia Europa tedesca, che prosperava tutta sui mercati esteri, deve dunque morire affinché l’Unione europea resti in vita.
Il problema, sostiene Draghi, è che per ridurre la dipendenza dall’estero bisogna accrescere le dimensioni del mercato interno. A tale scopo, diventa urgente demolire le barriere sovraniste che hanno finora ostacolato la creazione di un vero e proprio mercato unico europeo.
Nell’industria, nei servizi, nella ricerca e soprattutto nella finanza, è giunto il tempo di togliere i lacci nazionali che hanno frenato la competizione capitalistica dentro l’Unione. Solo in questo modo i capitali deboli saranno liquidati e assorbiti dai più forti. Solo così potranno formarsi dei colossi capitalistici europei capaci di rilanciare la produttività del vecchio continente.
Poi, una volta che saranno state liberate tutte le forze della concorrenza, lo sviluppo ulteriore del mercato interno potrà anche avvalersi di dosi massicce di spesa pubblica. È il ritorno del Keynes “bastardo”, ammesso in cabina di comando solo se prima abbraccia la croce del liberismo.
L’emendata dottrina Draghi si completa con un più esplicito piglio imperialista nei rapporti col resto del mondo. Grazie al liberismo interno, l’Ue potrà una buona volta sfoggiare giganti capitalistici continentali in grado di misurarsi con la stazza mostruosa dei principali concorrenti, americani e cinesi.
Ma la competizione tra giganti, oggi più che mai, si fonda non solo sulle guerre di prezzo ma anche sul controllo militare dei transiti, sulla violenta conquista di nuove linee commerciali, sul bruto accaparramento di risorse altrui. Da qui l’esigenza di dare alla politica estera europea una dotazione di armi e di truppe degna di un profilo imperiale.
Draghi prova a giustificare l’esortazione al riarmo con una retorica difensiva. Ma sembra una banalizzazione geopolitica, per rendere meno indigesta la torsione guerresca dell’Unione.
Il liberismo imperiale diventa dunque una necessità logica per la sopravvivenza del progetto europeo. La distanza dalla vecchia idea dell’Unione quale placido agente di pace nel mondo non è mai stata tanto siderale. Come ogni altra cosa di questo tempo di tumulto, anche l’ideologia dei padri costituenti dell’euro è soggetta a spaventosi stravolgimenti.
EMILIANO BRANCACCIO
foto: screenshot ed elaborazione propria