E’ finita bene al Salone del Libro di Torino: l’editore fascista è stato escluso dalla partecipazione e, dopo le sue dichiarazioni esplicite di appartenenza al credo del ventennio mussoliniano, la Magistratura ha aperto una indagine in merito.
Fondamentale è stata la presa di posizione di quella che a suo tempo era una ragazzina di tredici anni, ebrea, che sfuggì miracolosamente all’inferno omicida di Auschwitz dove vide gasare tutta la sua famiglia nelle “docce” con lo Zyclon B. Oggi ha più di novant’anni e vede tornare “fantasmi” che non immaginava potessero riapparire in così breve tempo.
Settanta anni di vita e di storia sono un tempo molto compresso, piccolo per immaginare una replica in forme e modi diversi di ciò che è avvenuto dal primo dopoguerra mondiale in poi: l’affermazione progressiva di autoritarismi trasformatisi in dittature sanguinarie, totalitarismi che mantenevano l’ordine con il terrore delle polizie segrete di Stato, con la persecuzione sistematica di qualunque oppositore o critico delle politiche governative.
Un leggero “progresso” c’è già: un tempo i nazisti i libri li bruciavano mettendo in essere il rito del “Bücherverbrennunge”: scenografia notturna con fiaccole, contrasto tra buio e luce nazista sotto il balcone di Hitler e in ogni manifestazione eclatante proprio come quella di un rogo di pagine e pagine le cui particelle minuscole finiscono nell’aria e riempiono le narici di violenti fanatici liberatori della nazione pangermanica dallo “spirito non tedesco“.
Oggi i moderni sovranisti-fascisti tentano di presentarli ai saloni internazionali: ma non certo i libri di Marx o Brecht… nemmeno quelli dei deportati nei campi di sterminio che riportano le testimonianze delle atrocità del Terzo Reich. Sono solo libri che interpretano alla meglio il filone revisionistico della storia, la cameratesca disamina degli eventi passati e dell’attualità dei sovranismi che altro non sono se non la moderna declinazione di fascismo e nazismo.
Uno dei punti da dirimere è cosa si intenda per “cultura” in un momento storico in cui tanto i fatti quanto le narrazioni dei medesimi assumono connotati esattamente opposti a loro medesimi nella cronaca sui quotidiani e nella scrittura di libri che dovrebbero accompagnarci alla comprensione, all’approfondimento dei temi sociali, politici, economici e anche nelle singole biografie dei rappresentanti istituzionali di turno.
Ciò che emerge con evidenza è che i libri che propagandano il revisionismo storico sul fascismo e sulle malefatte del regime nascono e crescono nella completa assenza del “dubbio“: non vi è critica minima, ma elogio del ventennio. Più che cultura qui potremmo parlare di mera propaganda, di guide alla moderna impostazione personale per “lavorare incontro” ad un nuovo duce.
Scriveva Norberto Bobbio: “Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.“.
Il dubbio, invece, se esiste nei testi della tanto vituperata sinistra, anzi vi abbonda costantemente, almeno nelle opere che analizzano l’esistente e gli sviluppi di una società che si dibatte tra una politica sempre più lontana dal sociale e una economia sempre più egemonizzante la sovrastruttura governativa e istituzionale, non ha cittadinanza in un ambiente di pensiero che ritiene di possedere certezze assolute e di non dover entrare nel merito degli argomenti.
Ha valenza prevalente lo “slogan” come grimaldello che apre tutte le porte, che introduce ad una rivalutazione di concetti che erano stati messi al bando con una impostazione non solo culturale ma soprattutto sociale fondata sull’antifascismo, sulle pietre angolari costituzionali.
Relativizzato l’antifascismo insieme alla fondazione e alla “fondatezza” della Repubblica, di cui i sovranisti si affannano a riconoscere opportunisticamente soltanto il lato “democratico”, per evidenti ragioni di gestione politica del potere che hanno tra le mani, tutto diventa possibile e la verità dei fatti e i fatti della verità stessa diventano invisibili, soggettivi e impalpabili.
Non si tratta di ricercare la verità per antonomasia, quella pietra filosofale mai trovata, ma avvicinarsi nuovamente al carattere della Repubblica, all’origine della democrazia (borghese) che è stata per molti decenni condizionata da tratti sociali proprio perché la sua Costituzione, quella del nuovo Stato nato dalle ceneri del Regno d’Italia, è nata grazie ad un compromesso anzitutto culturale: rinascita di una pluralità politica soppressa con le leggi fascistissime e obliata fino al 1943.
Lavorare incontro ad un nuovo ducetto moderno sembra la propensione che viene ispirata da organi di comunicazione che, anche non volendo, finiscono per dare fiato alla nuova “banalità del male“.
Del resto, il “lavorare incontro al führer” era un principio emergente proprio nella costruzione del regime nazista subito dopo l’avvento al cancellierato di Hitler, quando il potere si consolida e il partito cresciuto prevalentemente in Baviera assume dimensioni nazionali facendo il salto ulteriore a “partito unico”.
La cultura in questo caso diventa proprio “irregimentata”, cultura di regime. A noi manca questo passaggio: il monocolore governativo, l’eliminazione degli alleati di governo da parte del partito che – ci dicono i sondaggi – dovrebbe assurgere a percentuali superiori al 35%. Un partito sovranista. Un partito che risolve tutto, con una disarmante semplicità che altro non è se non semplificazionismo, estremizzazione dei concetti e ridicolizzazione delle critiche che gli vengono poste, compresa la derisione dell’avversario sempre e comunque.
La massa ride, applaude e pensa di aver ritrovato una speranza. Si sta invece gettando tra le braccia di un autoritarismo pericolosissimo, di una deriva antidemocratica e antirepubblicana che non ha nulla di sociale e che procurerà all’Italia il restringimento degli ambiti di libertà.
A poco a poco, con metodo abitudinario, ripetendo i più vuoti concetti tante volte: “Mi pagano per lavorare, per combattere la mafia, l”ndrangheta e la camorra, non per occuparmi delle polemiche su un sottosegretario”.
E’ banale, è solo uno slogan propagandistico, ma è efficace nella pochezza sociale, culturale e morale del popolo d’oggi.
MARCO SFERINI
9 maggio 2019
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