Il gusto per la polemica spicciola, ma nettamente divisiva in seno alla cosiddetta “opinione pubblica“, più che altro è la conseguenza di un calcolo sovente politico: meno si parla dei grandi temi che riguardano scostamenti di bilancio, interventi nelle tasche degli italiani, cancellazione di interi capitoli di spesa per il sociale a tutto vantaggio dell’economia di guerra, meglio è per il governo.
Tuttavia le discussioni sul quasi-niente sono certe volte intempestive, sbaragliano persino gli avversari dell’esecutivo, perché riguardano punti di principio, osservazioni etiche che aprono vertenze dialettiche su ciò che l’opposizione rimprovera alla maggioranza e in cui si trova ad imbattersi per un gesto, per una parola, per una dichiarazione di qualche esponente parlamentare o dirigente di partito che si è lasciato andare: può essere la parolaccia di turno, lo scatto d’ira o un gesto di troppo.
Succede ai peggiori, può non succedere ai mostri sacri di quella che Marco Pannella avrebbe definito la “partitocrazia” discendente dalla vecchia cosiddetta “prima repubblica“? Ed infatti accade. L’atteggiamento mostrato da Romano Prodi nei confronti di una giornalista di Mediaset, che lo incalzava provocatoriamente con una domanda sul “Manifesto di Ventotene“, non c’è dubbio che sia stato disdicevole ma lì poi ci si deve fermare nella stigmatizzazione. Più di tutto ha indignato la tiratina di capelli.
Imitando forse un buffetto sulle guance, tipico gesto del nonno nei confronti dei nipoti, il professore ha preso per pochi secondi i capelli dell’inviata di Porro e li ha leggermente tirati su e giù. Come se fossero delle orecchie da asino pinocchiesco, da monella che fa la domanda inopportuna. Il gesto ha sorpreso, perché Romano Prodi è sempre stato un tipico democristiano dal tono pacato, dal sorriso pacioso, dalle guance sporgenti e dall’ammiccamento benevolo tramite quello che Silvio Berlusconi definì l’atteggiamento di un bonario curato di campagna.
Mettiamoci pure tutto: l’età incedente (ottantacinque anni), le dolorose vicissitudini familiari e, magari, per un attimo anche una leggerissima esplosione di rabbia per una domanda che verteva sull’abolizione della proprietà privata e che, oggettivamente, uno come Prodi non poteva accogliere come rivendicazione tra le prime del manifesto stilato da Spinelli e Rossi. Un vecchio cattolico, centrista, liberale, certamente democratico, avrebbe potuto rispondere con altro piglio, evitando la tiratina dei capelli.
Il punto è che, se polemica deve essere, allora sia: ed infatti da alcuni giorni, oltre a discutere vagamente di cose serie, si dibatte persino sullo stato di salute dell’ex Presidente del Consiglio per l’Ulivo e per L’Unione. Precisazione: qualunque domanda ti facciano i giornalisti, nulla di autorizza a tirare i capelli a chicchessia. In questo caso era una donna. Domanda: se Prodi avesse avuto davanti a sé un uomo si sarebbe comportato egualmente? Probabilmente no. Ma, volendo evitare l’allargamento della polemica fine a sé stessa, serve concentrarsi sulla distrazione di massa.
Quanto la politica è divenuta spettacolarizzazione di sé stessa? Tanto, troppo, esageratamente molto, moltissimo. Utilizziamo pure tutti gli aggettivi possibili. Sta di fatto che se uno vuole farsi notare e diventare “virale” sui social, la spara grossa e sa di produrre quell’effetto valanga che travolge tutto il resto. Viene il dubbio che molte presunte gaffes non siano poi così vere e dettate dalla sciatteria inculturale e dall’impreparazione di una classe dirigente meloniana improvvisata lì per lì.
La tattica dell’evitamento della concentrazione dell’attenzione sociale su temi che riguardano effettivamente tutte e tutti e che, disgraziatamente, rientrano nello stato di guerra permanente in cui ci troviamo, non è certamente nuova ma, rispetto al passato, ha conosciuto un utilizzo davvero inflazionato: la stessa citazione del “Manifesto di Ventotene” alla Camera dei Deputati è parsa, oggettivamente, per quello che poi è risultata essere: spostare lo stesso dibattito parlamentare su un tema che nulla aveva a che vedere con le questioni di cui in quel preciso istante i deputati stavano discutendo.
La vicenda di Romano Prodi può anche far sorridere un po’, perché le attenuanti sono riscontrabili, ma non deve per questo far dimenticare che chi ci governa, oggi più di ieri, utilizza questa metodologia di scomposizione del senso comune per attribuire ad un particolare un valore che, intrinsecamente, non ha. Dunque, il tema vero e proprio dovrebbe ora essere quello concernente la qualità della politica istituzionale oggidì. Prodi ha mancato in educazione? Indubbiamente. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra.
C’è tutto un mondo della (dis)informazione che non fa altro che cimentarsi in queste pratiche di inesprimibilità dei concetti, per andare a cercare il chiacchiericcio di turno e innestare su questo concitate colonne di editoriali che parlano sempre e soltanto di niente. Parole per le parole stesse. Probabilmente come queste che anche qui si stanno scrivendo: perché il gioco è un cortocircuito perverso ed avviluppa, coinvolge, costringe a trattare l’intrattabile, a riguardare ciò che invece si vorrebbe poter trascurare.
Qual è la caratteristica quasi fisiognomica di una maggioranza di governo che fa del giocoforza e dell’arretratezza della dialettica politica il cardine del suo modo di rapportarsi con l’esterno da sé, tanto con la carta stampata e il mondo televisivo-radio-internettiano, così come, soprattutto, con la cittadinanza? Questa caratteristica è la prepotenza unita alla spudoratezza della menzogna. Per cui, esattamente in tempi meloniani come questi, dire la verità è davvero un atto rivoluzionario.
Nel momento in cui tu divieni una specie di grillo parlante, perché così ti dipingono i tuoi avversari, denigrandoti con il dileggio e facendo anche del revisionismo culturale, storico, nonché politico, muore il confronto anche aspro dei tempi di Almirante e Berlinguer, di Fanfani e Pajetta, e prevale la rissosità da inquadratura a favore di telecamere: che sia poi di una tv o di un telefonino poco importa. Tutto quello che si riprende, alla fine finisce nella eco della ripetizione massmediatica a tutto tondo.
Quasi simultaneamente all’episodio prodiano è quello donzelliano riferito al giornalista de “Il Fatto Quotidiano“, Giacomo Salvini: colpa sua aver scritto il libro “Fratelli di chat” in cui si rivelano le conversazioni tra i più alti dirigenti del partito di Giorgia Meloni e si compone una narrazione che lascia intendere che, a discapito dei propri partner di coalizione, con molti infingimenti e un ovvio ricorso alla retorica propagandistica di piazza, la scalata dal quattro per cento al trentadue è stata possibile.
Ma non va dimenticato che è sempre il contesto economico-sociale a determinare il successo di una forza politica. Anzi, di una politica piuttosto che di un’altra. Ogni volta che pensiamo ad una ascesa repentina di un partito attribuendo a questa quasi un’aura di mistica, impenetrabile e dogmatica virtù celeste, commettiamo l’errore di trascurare, proprio come nel caso delle polemiche di distrazione di massa, la concretezza dei rapporti di forza tanto tra le classi sociali quanto tra quelle più propriamente politiche.
L’estrema destra di governo sta giocando la partita non solo della disinformazione costante, ma pure quella della superficialità dei contenuti e dei messaggi banali per evitare di spiegare gli squilibri congiunturali dell’oggi e il riflesso che avranno domani. L’arroganza entra muscolarmente in una dinamica dello scambio vituperiale di parole che sono il dito puntato del potere nei confronti tanto delle opposizioni parlamentari quanto delle minoranze sociali, civili e culturali dell’intera nazione.
Del resto, la discriminazione, la diseguaglianza come fondamento di un mondo giusto, in cui il forte prevale – secondo un perfetto stile hitleriano – sul debole secondo uno stato di natura inscritto nell’essenza (dis)umana, sono da sempre caratteri specifici di una impostazione verticale corporativa piuttosto che di una eguaglianza sociale rivendicata spudoratamente dai tempi dei Fasci di combattimento fino a quelli del MSI. La chiave interpretativa moderna di tutto ciò è un governo che non amministra ma acquisisce il potere e intende tenerselo mediante una mutazione genetica della Costituzione.
Ora, davanti a controriforme come quella dell’autonomia differenziata, il premierato, la giustizia e la mortificazione dello stato sociale già ampiamente spogliato di sé stesso dalle politiche liberiste ultratrentennalmente applicate sotto un po’ tutte le bandiere, dobbiamo davvero accettare questo stravolgimento quasi antropologico dei rapporti tra cittadinanza e istituzioni, tra deleganti e delegati, tra base popolare e vertice amministrativo e gestionale della Repubblica? Certo che no.
Tra gli altri, uno dei problemi più contingenti, e dunque urgenti, è la formazione di una alternativa concreta e credibile a questo blocco di potere che intende sovvertire la democrazia, consumandola giorno per giorno, assuefacendo ampi settori sociali all’antisociale come modello di interpretazione dell’esistente: non esiste altra possibilità, ci dicono le destre di governo, di uscire dall’attuale fase di crisi europea e globale se non tramite la soddisfazione dei presupposti mercatisti occidentali. La logica della guerra lo pretende.
La cifra della violenza è oggi preponderante rispetto a quella del confronto: dai social alla realtà fuori da loro, si adopera non la critica ma l’avversione come elemento caratterizzante una permalosità collettiva che si riverbera nelle nostre valutazioni quotidiane. L’arroganza del potere è presa ad esempio e diventa, proprio perché davvero “esemplare“, un modello di etica personale che si riconosce nei tempi modernissimi di un oggi in cui ad affermazione si risponde non con altra affermazione ma con l’insulto preventivo.
Questo vuol dire che non si cerca la chiarezza dei fatti nella reciprocità del confronto tra idee anche diversissime: si cerca soltanto lo scontro per fare fuori chi non la pensa come noi e, quindi, non concedergli alcuna cittadinanza nell’Italia nuova del melonismo che si alterna tra pseudo-moderatismo forzitaliota e intransigente estremismo populista salviniano. Dobbiamo stare molto attenti a non cadere in questo tranello: non possiamo permetterci di essere come loro e quindi il nostro linguaggio, il nostro civismo, la nostra capacità critica e la nostra dialettica devono essere un presupposto di alternativa.
Di quell’alternativa che va urgentemente costruita da una sinistra che dimostri di rappresentare ancora la vera cultura sociale, la vera moralità costituzionale, l’erede di una Resistenza che, nell’ottantesimo anno della sua ricorrenza, non è veramente mai finita.
MARCO SFERINI
27 marzo 2025
foto: screenshot tv ed elaborazione propria