Le belle parole di Francesco e la realtà della Chiesa

«Santità, i comunisti siamo noi!». Verrebbe da scimmiottare la battuta di Peppone che rimbrottava don Camillo davanti alla folla e alla cappelletta della Madoninna del Borghetto. Le parole di...

«Santità, i comunisti siamo noi!». Verrebbe da scimmiottare la battuta di Peppone che rimbrottava don Camillo davanti alla folla e alla cappelletta della Madoninna del Borghetto. Le parole di Francesco sulla proprietà privata, la sua critica all’accumulazione di ingenti capitali che mettono in crisi qualunque principio di giustizia sociale e il richiamo alla storia di un Cristianesimo che avrebbe (condizionale necessario, in forma dubitativa, ma non obbligatorio) escluso da sempre l’intangibilità del possesso materiale di beni, sono a dir poco sorprendenti.

La critica al capitalismo è un tratto distintivo di una Chiesa moderna che pretende di rifarsi alle origini della fede e, più che all’insegnamento stesso, direttamente ai comportamenti di Gesù così come ci sono stati tramandati da storici ed esegeti. I Padri della Chiesa, del resto, scrivono ampiamente in merito, citando dei “Vangeli giudeo-cristiani” purtroppo andati completamente persi, dove si ritrova testimonianza dell’attività sociale e politica di Gesù proprio tra le genti più povere della Palestina d’un tempo.

Nel “Vangelo degli Ebionti” (ossia “Vangelo degli Umili“) vengono fatti parlare proprio i miserabili del tempo che sembrano aver affermato: «Ci fu un uomo di circa trent’anni, il quale ci scelse»; mentre un altro testo di cui restano solo brevi citazioni, il “Vangelo dei Nazareni“, traccia un ritratto di Gesù come di un uomo che sentiva su di sé tutto il peso non tanto del peccato umano, quanto proprio delle ingiustizie che il potere locale erodiano e quello centrale romano elargivano a piene mani su gran parte della popolazione.

Gesù crea, in pratica, una partes che unisce morale a sociale e diviene quindi – seppure non direttamente – un movimento politico che fa discutere esseni, zeloti, mandei, che innova il dibattito sulle forme di liberazione del popolo ebraico dal dominio romano e, prima ancora, della vita da condurre sotto le insegne imperiali. E’ giusto pagare il tributo a Tiberio? E’ giusto riconoscere nel governatore l’autorità politica? Tante domande, troppe, che creano disagio e destabilizzano il potere sacerdotale che non vuole perdere il proprio prestigio, la propria posizione di casta nel e sul popolo.

I rapporti di potere, del resto, sono poteri economici ed anche al tempo di Gesù, se proprio non si pone una questione “anticapitalista” (visto che il capitalismo ancora non esisteva), si pone invece la questione più general generica sulle ingiustizie di ogni tipo: schiavitù, leggi morali dettate da un patriarcalismo dominatore frutto della gestione privata delle singole proprietà di famiglia, mercati e mercanti, tempi e credenze. I contadini dell’epoca vengono defraudati tramite carichi fiscali ingenti, come ci racconta lo storico Giuseppe Flavio che è forse tra i primi a riportare quanto la gente «…considerasse ignominioso il fatto di dover versare tributi ai romani» (“La guerra giudaica“, II, 8 – 10).

Ma la Chiesa cattolica non fa riferimento a Flavio, ed a tutta una serie di Vangeli non canonici, per riprendere una lotta contro le diseguaglianze sociali e la sempre maggiore concentrazione delle ricchezze in mano di pochi individui rispetto alla enorme massa umana. Molto più conveniente e semplice, contemplando l’universalismo complesso del mondo cattolico, mettere sul piatto dell’informazione pubblica mondiale esternazioni che non riconsiderino la storia millenaria spesso controversa della Chiesa, ma che appaiano tanto attuali quanto acritiche verso quel mondo clericale che pure il papa – gliene va dato atto – sussume in relazione ai cambiamenti epocali che viviamo.

Prendere in esame testi che sono stati bollati come “apocrifi“, significherebbe certamente recuperare alla figura di Gesù un tratto fortemente umano e pure ribelle contro ogni ingiustizia, ma al prezzo di oscurare, seppure parzialmente, la natura “divina” del giovane falegname di Nazareth, rischiando di spostare l’attenzione da un cristianesimo-religione ad un cristianesimo-movimento sociale e politico: da oltre duemila anni fa fino ad oggi.

La Chiesa può permettersi tutto, anche di scegliere come scrivere la storia a proprio piacere, decidendo aprioristicamente quali testi sono degni di considerazione e quali invece sono da scartare perché non meritevoli di essere definiti “parola di dio“. Le parole di Francesco, a questo proposito, se non ristabiliscono una verità storica circa la scelta di Gesù di essere un socialista ante litteram, mutuano la dottrina cattolica senza modificarla, la rendono politicamente adeguata ai tempi tanto della pandemia quanto della nuova contrazione dei mercati che aumenta le diseguaglianze e genera nuove povertà.

L’acume pontificio è encomiabile: non far ricadere il cattolicesimo nella stretta visione dogmatica della perpetuazione del tradizionalismo contro ogni relativismo possibile e probabile. In questo senso, la chiesa di Ratzinger sembra sorpassata da un pontificato che, fin dal principio, pareva di transizione e che invece si sta stabilizzando e sta mettendo radici trasformando tanto gli equilibri interni al Vaticano quanto le relazioni esterne urbi et orbi.

Francesco stabilisce un equilibrio, quanto meno una corrispondenza, tra l’impegno dei cattolici nella lotta contro tutte le ingiustizie, prodotte da una economia che uccide gli esseri umani, stermina gli animali e depreda la natura (con le ben note conseguenze in termini di sostenibilità ambientale), e la riforma di una Chiesa che deve abbandonare la vocazione elitaria: «Nel Vangelo, quello che Dio ci chiede è di essere Il popolo di Dio, non l’élite di Dio. Perché quelli che seguono la via dell’ ‘élite di Dio’, finiscono per il noto clericalismo elitario che, lavora per il popolo, ma niente con il popolo, senza sentirsi un popolo».

L’ammonimento è a non lasciare la Chiesa cattolica priva di un riferimento sociale, facendo in modo quindi di evitare qualunque scissione tra privilegi ecclesiastici e resto del mondo che si trova nella più completa disperazione e che non capirebbe la preservazione di quella élite che si dichiara interprete del messaggio e del disegno divino.

Una mossa che non ha nulla a che vedere con la scelta di Gesù di stare dalla parte dei derelitti e dei diseredati, così come raccontata nei Vangeli non canonici smarriti nel corso dei secoli, perché è anche morale e sociale ma, in qualche modo, deve obbedire alla natura temporale di una Chiesa che non si è mai affrancata dal peccato originale del Patrimonio di San Pietro, trasformandosi da culto religioso in potere politico ed economico.

Forse Francesco tenta di farsi largo proprio in mezzo a questa stagnante conservazione di tanti privilegi. Nessuno ne mette in forse la “buona fede” (è proprio il caso di dirlo), ma ci deve essere permesso di dubitare che ogni sforzo prescinda dal considerare anche l’aspetto politico della situazione e, pertanto, la difesa di una fede cristiana delle origini così come la difesa della Chiesa dell’oggi che, lo si voglia o meno, è anche uno Stato con un sovrano assoluto.

Se si guarda a Francesco come ad un papa riformatore, è evidente che non si può non apprezzare lo sforzo di portare la Chiesa verso una maggiore tolleranza di sé stessa, mediante un lavoro di lunghissima lena, di progressiva demolizione di tanti costrutti che sorpassano la forza normativa della tradizione e si fanno intransigenze illogorabili, pilastri non erodibili dall’usura del tempo e dalla voglia del cambiamento che tenta di farsi largo tra gli anacronismi di un conservatorismo cieco che è tipico di chi ha timore delle innovazioni. Soprattutto se affermate e fatte in nome del mantenimento stesso di una istituzione: accade nella vita politica, figuriamoci se non può non accadere, con un moltiplicatore maggiore e un impatto esponenziale, nella grande millenaria storia del cristianesimo e del cattolicesimo.

Ciò è tanto più vero e concretamente reale se si esce dal racconto fideistico-religioso e si osserva la Chiesa come Stato, come potere temporale, come potere economico che è restio ad ogni innovazione, ad ogni mutamento. L’arma a doppio taglio del ruolo del pontefice: gli viene consegnato il potere di fare praticamente tutto, in quanto Vicario di Cristo e simbolo vivente del dio eterno e fuori da ogni tempo, ma poi gli si vorrebbe impedire di mettere in pratica questa sua prerogativa.

Anche questo è un prodotto tipico dell’assolutismo di tutti i tempi: non esiste sovrano, nella storia umana, che non abbia dovuto scontrarsi con la propria corte per imporre le sue decisioni partendo però dal punto di forza dell’essere il re, di avere pertanto l’ultima parola, quella decisiva, in merito.

In fondo, finché Francesco parla di equità, di giustizia sociale, di solidarietà umana, contro la voracità del sistema capitalistico, non crea un grande sconquasso all’interno dello Stato della Città del Vaticano: empatizza con i fedeli, accresce la stima che i popoli hanno per lui e, quindi, indirettamente (ma nemmeno poi tanto) per la Chiesa cattolica. Le stesse parole sulla tangibilità della proprietà privata, che lo farebbero quasi somigliare ad un novello Proudhon o ad una versione tutta particolare di neo-marxista, possono essere assorbite dalla Curia romana e dalle diramazioni diocesane di tutto il mondo.

Ciò che riuscirà più difficile a Francesco sarà mettere in pratica quelle parole dentro il suo stesso Stato e, il giorno che ve ne fosse bisogno, fare mettere in discussione tutta la proprietà privata della Chiesa cattolica. Ma proprio tutta. A cominciare dal suo potere temporale…

MARCO SFERINI

2 dicembre 2020

Foto di Annett_Klingner da Pixabay

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