Ci vuole una buona soglia di sopportazione, di pazienza e anche di una qualche non ben precisata virtù masochistica per leggere un po’ tutte le interviste ai leader delle forze politiche italiane nel dopo-crisi della maggioranza di “unità nazionale“.
Nella sfilza di domande che vengono rivolte a Conte, Meloni, Letta, Renzi, Salvini, Calenda, Berlusconi e Fratoianni, risuona un leit motiv retorico, sintetizzato molto bene da una dichiarazione di Beatrice Lorenzin (già di Forza Italia e da un po’ di anni in quota PD) che a domanda risponde: «Noi ci alleiamo con gli italiani». Sorriso sulle labbra, ammiccamento alla telecamera. Il niente è detto, il banale ha riempito il vuoto.
Credo sia questa ostentazione di una captatio benevolentiae elettoralistica all’ennesima potenza a creare pruriginosità estreme e convulsive a chiunque abbia un po’ di intelligenza e sappia discernere la sincerità dal ruvido e indigeribile blandimento del politico di turno. E’ una tendenza nettamente trasversale, nessuno ne è escluso, perché un po’ tutti, a destra, al centro, a sinistra, provano a rivolgersi agli elettori e, quando lo fanno, usano toni, parole, concetti e una mimica così maldestre da risultare ridicoli prima ancora che degni di una certa sorta di attenzione.
In fondo, la campagna elettorale si nutre di questi tic nervosi, mascherati da proposte “per il Paese“, “per il bene dell’Italia“. Se si vuole cogliere consensi a piene mani si deve puntare sulla faciloneria, sulla sempliciotteria, sulla sprovvedutezza e sull’ignoranza subita e anche consapevolmente mantenuta tale di tanta parte della popolazione che viene rubricata alla voce “disaffezione“.
A me pare sia un cane che si morde la coda, un circolo vizioso da cui non si esce, perché dichiarazioni come quella della Lorenzin, o riferimenti al benessere supremo della nazione vanno in controtendenza rispetto a quanto la gente più debole e povera si attende da una proposta politica organizzata su una alternativa a quanto fino ad ora è stato fatto.
Evidentemente, chi vuole rappresentare una cesura con quanto i governi hanno fatto fino ad oggi è, in un caso volutamente ed estremamente ruffiano se dice di volersi intestare l'”agenda Draghi” proprio per sostenere il cambiamento sociale; nell’altro caso, invece, finisce col rasentare il più vuoto e smargiasso qualunquismo moderno nel proporre mille euro a tutti i pensionati al minimo e un milione di alberi da piantare, insieme ad altre amenità che riportano alla mente le promesse del berlusconismo d’antan, quello del “presidente operaio” di tristissima fine novecentesca memoria…
Se è vero, come sostiene Enrico Letta, che le elezioni si vincono con le idee, si capisce perché il PD le perde. Le proposte politiche dei democratici non si smuovono dalla messa in sicurezza, anzitutto, dei privilegi del mondo imprenditoriale e hanno come bussola le ragioni del mercato e non una prospettiva sociale, una tendenza a considerare almeno paritariamente anche le esigenze prime del mondo del lavoro e della grande precarietà dilagante.
Quando affermano di essere “progressisti“, i democratici sanno che intendono con quel termine affermare che occorre sempre e soltanto un compromesso costante, una pace sociale tra chi produce e chi fa profitti.
Il modello liberista è divenuto costituente per il PD, ancora di più oggi rispetto ai tempi di Veltroni, Renzi e Gentiloni. La competizione centrista nella geopolitica nazionale ha dato vita ad una gara tra il presunto progressismo rimasto, eco ormai lontana del Conte II, e l’affermazione del modello draghiano: riformatori e liberali di centro uniti nel portare avanti un pacchetto di misure economiche a sostegno del privato, a cui si può concedere qualcosa di pubblico.
Pur essendo un movimento privo di una vera cultura politica, dove l’assenza delle ideologie ha causato la lotta delle idee, un tutti contro tutti nel nome del valore di un uno pitagorico come massima espressione decisionale tanto singola quanto collettiva, i Cinquestelle hanno dimostrato in questi ultimi mesi, vuoi per opportunismo elettorale, vuoi per rispondere ad una domanda psico-politica sul “chi siamo veramente“, un certo vigore progressista.
Da un cattolico democratico come Giuseppe Conte non ci si può certo attendere chissà quale balzo in avanti sul terreno delle riforme sociali, ma è pur rispondente al vero il fatto che, nel Parlamento appena sciolto, oltre a Sinistra Italiana e alle deputate e ai senatori di ManifestA, ben poco si poteva riscontrare in quanto ad una tendenza nei confronti della giustizia sociale, ad una attenzione verso le rivendicazioni sindacali della CGIL o a quelle del variegato mondo del volontariato e del cristianesimo sociale e di base.
Il PD non ha perso occasione per proporsi come forza di progresso ma, alla prova dei fatti, ogni sua decisione, ogni sua partecipazione governativa, ogni sua alleanza o prospettiva attuale in questa direzione, altro non ha fatto se non corroborare la tesi per cui siamo innanzi ad un progetto che guarda non all'”agenda sociale” che Conte evoca mettendo mano al Reddito di cittadinanza per migliorarlo, e tanto meno al salario minimo a 10 euro all’ora proposto dalle altre forze della sinistra di alternativa.
Pervicacemente, Letta, Franceschini, Orlando e anche le frange più “a sinistra” nel PD, si ostinano a rimanere saldamente ancorati ad una politica che mette insieme quello che il macronismo unisce in Francia: l’espansione economica di un sistema produttivo che fa extraprofitti, senza che si ipotizzi un risposta di equità sociale, un rientro parziale degli stessi mediante una tassazione adeguata, con un mondo del lavoro che gli è completamente asservito e subordinato. Con i salari a traino dei guadagni privati, degli indici di borsa, dei grandi movimenti di capitali finanziari che, grazie alla pandemia, hanno fatto gli affari più grandi, gli affari veramente mai visti…
Al PD non interessa proporre un “campo largo” del progressismo italiano. Tanto più oggi che il centro è in subbuglio, che in pochi giorni è necessario ricompattare le coalizioni, ridisegnare i perimetri di una politica deflagrata tra le contraddizioni di tanti piccoli tatticismi, e quindi si pone il tema di chi debba, nella prossima legislatura, apparire socialmente accettabile con in mano una agenda antisociale.
Il capolavoro draghiano ha impattato violentemente contro una eterogenesi dei fini spacciata per nobiltà di intenti. Cinquestelle compresi. Per giustificare oggi una mossa mal riuscita, a causa del numero di nemici che si intende sfidare in una sola volta…, la svolta progressista del M5S è l’unico modo che hanno Conte e amici per dare un senso ad un progetto politico altrimenti finito. Li aiuta una certa eredità politica che, obiettivamente, ha nel suo curriculum vitae sia le battaglie ambientaliste, sia quelle civili contro l’omofobia e quelle sociali per una espansione dei diritti dei lavoratori e dei precari.
Non vanno dimenticati i danni procurati dal governo Conte I: quell’abbraccio mortale con la Lega ha segnato, nella fase ancora di rivalsa contro le ideologie e un istituzionalismo visto solamente come espressione della “casta” (e, anche in questo caso, una qualche ragione esisteva in merito, ma si esauriva con l’essere fine a sé stessa), l’inizio di un lento scollamento tra la base militante del Movimento e la sua rappresentanza parlamentare veramente imponente e consistente.
La velocità con cui si è consumata la crisi di governo ha indotto tutti ad uno sguardo altrettanto repentino nel proprio limitrofo, per capire, sondare, cercare chi era più vicino sic stantibus rebus.
Un po’ tutti si sono sganciati dal loro recente passato e hanno dipinto su sé stessi maschere nuove, volti ricostruiti con un trucco dai lineamenti comunque mai del tutto abbandonati di un passato che non passa. Berlusconi fa promesse come nel 1994, Salvini ritorna a proporre i decreti sicurezza e la Flat tax, Conte riporta i grillini alla ricerca del tempo perduto, mentre la Meloni rievoca il suo passato (che è anche il suo presente) nell’estrema destra con frasi che tradiscono ciò che veramente sente e che, infatti, finisce col dire: «Dicevano che saremmo tornati nelle fogne, ed invece dopo un anno si capisce chi comprende le dinamiche della democrazia».
Una post-fascista che insegna la democrazia all’eterogeneo mondo politico democratico ed antifascista. Quando ci si può permettere di parlare così, pare evidente che il problema è anzitutto di natura sociale e che sono proprio quei milioni e milioni di lavoratori, che oggi vedono in Fratelli d’Italia un punto di riferimento per la difesa delle loro istanze, il campanello d’allarme che dovrebbe suonare in ogni dove nel resto del Parlamento come nel Paese.
Invece il PD guarda all'”agenda Draghi“, pensa a come dare stabilità a politiche che consentono al padronato italiano di raggiungere una sicurezza che i lavoratori, i pensionati, gli studenti, i precari e quel che resta delle tutele e garanzie sociali non avranno mai. Letta ha tutto il diritto di scegliere la sua linea politica: provare a dirsi ancora “partito progressista” e mettere insieme anche quei pezzi di centro liberista che, in fondo, col PD condividono già molto, a partire dall’europeismo esasperato fino all’atlantismo militarista e guerrafondaio.
Ma, se Letta ha questo diritto (e lo ha), ha altrettanto, e forse anche di più, diritto Conte di spacciare i Cinquestelle come nuova forza progressista del Paese, come punto di riferimento dei ceti più indigenti, di quei sei milioni di italiani che sono ben sotto la soglia di una povertà considerata tale troppo ottimisticamente dall’ISTAT e da tanti economisti.
Oltre la demagogia e il pressapochismo delle dichiarazioni giornalistiche sulle alleanze con gli italiani piuttosto che con altre forze politiche, la ricostruzione di un vero polo di progresso e giustizia sociale può essere considerata fattibile solo se si escludono tutti quelli che mettono in discussione le ragioni dei lavoratori come agenda politica prioritaria, insieme alle impellenze eco-sostenibili, ad una visione rivoluzionaria dell’intervento istituzionale nei tanti settori sociali e ambientali che necessitano di interventi più che urgenti.
Il PD ha scelto il campo in cui stare e non è quello progressista. E’ il campo dell’interclassismo, della condivisione dei poteri e delle responsabilità con quella che un tempo si sarebbe chiamata “la borghesia nazionale” (ed internazionale). E’ probabile che, dopo il 25 settembre, si creino le condizioni per dare anche alle definizioni degli spazi politici e sociali nuovi significati, smettendo di attribuire ai democratici di Letta la patente di “progressisti” e, soprattutto, quella ormai veramente desueta, anacronistica e del tutto fuori luogo di “sinistra“.
MARCO SFERINI
24 luglio 2022
Foto di Nothing Ahead