Ventiquattro anni fa, in quel 1994 in cui il centrodestra aveva fatto man bassa in tutte le elezioni che gli si erano presentate innanzi, si era potuto accennare ad un nuovo cesarismo spingendosi anche ad interpretare sotto il concetto di “neo-bonapartismo” il regime berlusconiano che prendeva avvio dalle macerie di una stagione della Repubblica chiamata “prima” e che avrebbe aperto le porte ad una “seconda” parte della vita dello Stato costituzionale che sarebbe dovuta essere connotata da un ritorno alla morale nella cosa pubblica.
Una soluzione di continuità con una politica fatta di interessi privati nutritisi attraverso l’utilizzo dei canali pubblici. Ma, come ci siamo potuti accorgere con nettezza dal seguitare di un anno dopo l’altro, una azione moralizzatrice ispirata dalla legislazione fedelmente applicata dalla magistratura non è bastata a cambiare rotta, ad invertire quella proprietà tipica del sistema economico in cui viviamo che condiziona naturalmente i meandri della vita politica istituzionale.
E’ bene precisare che si tratta dell’ambito istituzionale perché invece altrettanti ambiti di vita politica che vi prescindono riescono a sottrarsi a questo gorgo fatto di intrecci che piegano il pubblico al privato grazie alla natura stessa della loro funzione.
Il mantenimento del potere statale, governativo, significa stabilità di relazioni con i poteri economici che ispirano le tendenze politiche del momento, quindi la necessità di una protezione da parte istituzionale dei privilegi che l’economia del capitale impone per ottenere sempre maggiori profitti con il minimo sforzo e con il conseguente minimo rischio di impresa e di investimento negli affari borsistici di mezzo mondo.
Del resto, il legame tra struttura economica e sovrastruttura statale è uno dei disvelamenti primordiali del Marx giovane, molto bene analizzato negli studi tanto storico-materialistici quanto scientifici, del post-“Manifesto del Partito Comunista“.
Non scopriamo niente di nuovo ma possiamo, proprio per questo, ritrovare in tutto ciò una conferma del fatto che il capitalismo può mutare pelle ma non la sua sostanza sottocutanea. Lì, rimane tale e quale era duecento anni fa: il suo scopo non viene meno; cambiano soltanto circostanze, quindi metodi e interpreti di una tragica commedia che va in scena con il medesimo copione: assicurare nel tempo il privilegio della ricchezza e la perpetuazione del diritto di successione per l’accesso al profitto da parte di chi detiene il controllo dei mezzi di produzione.
Si potrebbe allora affermare che la politica istituzionale è innocente, che è vittima di un legame con la struttura economica cui magari vorrebbe sfuggire ma non può. E’ una tesi che potrebbe essere sostenuta sulla base di un fenomeno puramente dialettico: in realtà economia politica e politica dell’economia sono simbiotiche, non possono separarsi. Con l’unica differenza nel rapporto di interazione a vantaggio della prima che guida la seconda. Quindi un rapporto di dipendenza. E’ definibile così ancora oggi l’impossibile separazione netta, totale dell’istituzionalismo di certi partiti votati al governismo come missione per il cambiamento sociale.
Dunque, pensare di capovolgere la società mediante la sola rappresentanza parlamentare è una utopia vera e propria; una chimera che per troppo tempo anche a sinistra è stata rincorsa come unica ragione di esistenza di una alternativa di società: senza seggi in Parlamento sembra che la sinistra diventi inutile, che i comunisti perdano la loro ragione d’essere.
Invece avremmo dovuto capire per tempo che, davanti al cesarismo del centrodestra di oltre venti anni fa, il ricatto del voto utile era utile soltanto a quelle forze politiche che sono riuscite nell’intento di ammortizzare le critiche, le agitazioni popolari, i movimenti dei lavoratori e dei precari. Il tutto paventando l’arrivo di forze reazionarie di destra che avrebbero sconvolto la vita democratica del Paese.
Ormai abbiamo smesso di credere alla favola del centrosinistra salvifico, argine della pericolosità delle destre: politiche liberiste e tentativi di manomissione della Costituzione, così come nemmeno proprio le forze peggiori in quanto a rapporto con la democrazia repubblicana avevano tentato, sono l’evidenza davanti alla quale qualunque cittadino che sia comunista o che si proclami di sinistra dovrebbe prendere coscienza: sapere che centrosinistra e centrodestra sono due facce della stessa medaglia. Una medaglia che il capitale assegna, di volta in volta, a chi dei due primeggia nel confronto per il controllo politico del Paese con garanzia di protezione del regime dei profitti.
Per questo è necessario, se si vuole ricomporre un movimento comunista, di costruzione dell’alternativa di società, fare pernacchie a chi ci avvicina pensando che si possa ancora dare credito alla tesi del “voto utile“, del “voto contro le destre“, del “voto ad una sinistra moderna” che vuole rifare il centrosinistra per cambiare il Paese. Permettete un francesismo: cazzate. Quindi parole vuote, prive di significato perché non aderenti a nessuno scopo pratico per risollevare gli interessi e i bisogni degli sfruttati di oggi.
Sfuggire a questa illogica sinistra moderata è possibile se ci si pone in alternativa a tutto e tutti, se si è disposti, come sta facendo Potere al Popolo!, a mettere in discussione proprio la definizione stessa di sinistra “moderna” che non può corrispondere alla vecchia socialdemocrazia pattizia di un tempo.
Ci serve un progetto di lungo respiro che lavori, a partire dalla tornata elettorale del 4 marzo, a ridare senso alle lotte sociali, ad una critica senza appello al capitalismo, senza se e senza ma. Ci serve una nuova “narrazione”, come si direbbe oggi con un linguaggio modaiolo e un po’ snobistico.
Aver raccolto più di 40.000 firme in tutta Italia, dimostrando ai tecnocrati delle leggi elettorali e a chi è sfuggito alle proprie regole (con altrettante regolette messe ad arte nel Rosatellum per privilegiare i forti e indebolire i deboli) che c’è un popolo che senza mezzi e senza soldi ce la può fare con il proprio impegno di mente, braccia e gambe, è una grande vittoria di fatto e di principio.
Sappiamo che ci siamo e che siamo tanti e che cresceremo ancora. Quindi, non guardiamo i sondaggi: sono un tentativo di condizionamento quasi ideologico per condizionare le nostre volontà e provare a creare una demoralizzazione che non possiamo permetterci di provare. Meno sondaggi e più volantinaggi. Alla fine conta la presenza nostra tra il popolo che vogliamo rappresentare.
MARCO SFERINI
28 gennaio 2018
foto di Veruschka Fedi