Lazio e Lombardia: sconfitte vere e vittorie apparenti

La “minoranza elettorale” Sovrasta e sovraordina ogni commento sulle elezioni regionali in Lazio e Lombardia l’eclatanza della percentuale di chi ha deciso di non recarsi ai seggi. Clamoroso, per...

La “minoranza elettorale”

Sovrasta e sovraordina ogni commento sulle elezioni regionali in Lazio e Lombardia l’eclatanza della percentuale di chi ha deciso di non recarsi ai seggi. Clamoroso, per niente enfatico dato che primeggia in un guinnes negativissimo in tutta la storia democratica dell’Italia postbellica.

Un elementare confronto con le stesse elezioni di cinque anni fa, mostra un 29,35% in più di cittadini abbia pensato bene di rimanersene a casa e di non esprimere alcuna preferenza per i candidati e le liste laziali. Peggio va nella locomotiva d’Italia, dove nel 2018 votò il 73,11% della popolazione e dove, oggi, impietosamente si reca alle urne soltanto il 41,68% degli aventi diritto.

Un quadro veramente desolante, disarmante, recrudescente, che si apre a nuovi orizzonti pessimistici per una gran fetta di elettori tanto di sinistra quanto di centro e, senza risparmiare niente e nessuno, anche della destra stessa che, pure, in questo scenario di consunzione democratica, pare emergere come la vincitrice, netta, assoluta, a conferma delle scelte di governo sul piano nazionale.

Siamo ormai in presenza non più di una maggioranza relativa, risicata che si reca alle urne per decretare, sostanzialmente, una qualche forma di sovranità popolare, semmai di una vera e propria minoranza, ancorché relativa, che si esprime in un vuoto che le gira vorticosamente attorno e le fa terra bruciata nel potersi pienamente sentire investita di una autorità di governo, di gestione di una cosa pubblica lontana dai bisogni e dai sentimenti dei cittadini.

E qui sta il paradosso: non esiste un “quorum” per la democrazia delegata, per la sovranità espressa mediante il voto: chi vota ha ragione e chi vota ha diritto di essere governato tanto quanto chi non ha votato. Per cui, siccome è la partecipazione che viene premiata, in quanto attività manifesta del cittadino nei confronti della comunità intera, i presidenti eletti e rieletti di Lazio e Lombardia hanno gli identici poteri che avrebbero se li avessero scelti gli elettori di cinque o dieci anni fa.

Perché, cambiando i deleganti, o meglio assentandosi dal loro diritto/dovere, la delega data non cambia affatto. Non vi è nessuna limitazione o discrezionalità nell’esercizio di funzioni che valgono sia se vota l’intero corpo elettorale sia se alle urne si presenta un terzo dello stesso.

Ne consegue che ad entrare in crisi è, prima ancora dell’istituzione, la forma-sostanza della democrazia indiretta, della rappresentanza data attraverso un voto che ormai da troppo tempo viene svilito dalle scelte successive degli eletti e che, quindi, perde di consistenza nel rapporto tra principio declamato in campagna elettorale, programma rivendicato con forza e applicazione anche parziale dello stesso una volta eletto il nuovo centro di gestione e di comando.

Vincitori e vinti

Davvero sconcertanti sono le primissime, e per questo le più sincere, dichiarazioni fatte a caldo dai vari segretari e leader dei partiti in campo. Brevi cenni alla disaffezione popolare per il voto democratico e, immediatamente successive, valutazioni sull’andamento del proprio partito guardando quasi esclusivamente alle percentuali e molto poco ai voti in termini assoluti.

Nemmeno Fratelli d’Italia, che è il partito in ascesa, il protagonista della vita politica e governativa del Paese, riesce ad immunizzarsi dall’emorragia di consensi tanto in Lazio quanto in Lombardia: i confronti con le politiche sono già poco edificanti; quelli con le regionali del 2018 sono addirittura impietosi, nonostante la verticale crescita del partito meloniano ed anche delle destre.

L’astensionismo colpisce senza discriminare niente e nessuno. In questo pare essere molto democratico nel rifiutare, forse per protesta in parte e forse per noia e rassegnazione in altrettanta parte, proprio la democrazia medesima. Ma non c’è dubbio, alla luce dei numeri e, soprattutto, di quelle che erano le proposte messe in campo con un preciso scopo politico, che i grandi sconfitti siano i Cinquestelle e il Terzo polo.

I primi possono rivendicare come parziale alibi la tradizionale andatura zoppicante nelle elezioni non nazionali. Il secondo, psuedo novità politica tra destra e sinistra, ha fallito nel tentativo di strappare lo scettro del centro ai due poli, provando a prendersi un po’ di centro dal centrosinistra e un po’ di destra dalla destra.

La logica dell’alternanza, in qualche modo, prevale anche nei numeri risicati di un voto dove su un quarto dell’elettorato nazionale è andato ai seggi un elettore su tre nel migliore dei casi, mentre in zone come le periferie della capitale è stato solamente un romano su quattro a cercare la tessera elettorale e a mettere una croce su un nome e su una lista.

Le dichiarazioni di Enrico Letta sono, a questo proposito, davvero lunari: la loro afferenza con la realtà è pressoché nulla. La separazione evidente tra la sintetica analisi twitteriana dell’uscente segreterio del PD e la società che esprime un rifiuto alla partecipazione è così ampia da lasciare intravedere molti dei motivi per cui la destra, che è e rimane comunque un caravanserraglio, tuttavia unito, vince a mani basse e totalizzando percentuali assurde con così pochi elettori nel quadro complessivo del voto.

I Cinquestelle falliscono due volte: nell’assalto progressista al ristrutturando Partito Democratico e, parallelamente, nel tenere almeno una qualche vicinanza alle percentuali che vengono loro assegnate dai sondaggi a livello nazionale. Indubbiamente manca tutta la partita del Mezzogiorno, bacino di consenso ancora non trascurabile per i pentastellati, e mancano regioni del centro e del nord che riequilibrerebbero la disfatta.

Ma il dato politico è, tanto per il PD quanto per il partito di Conte, inequivocabile: il primo, pur rimanendo il fulcro di una possibile alternativa alle destre, non assorbe il consenso popolare, quello di massa, quello di un vero progressismo innovatore; il secondo, arrivato in ritardo sulla tabella di marcia, convertitosi repentinamente ad un antidraghismo dal retrogusto opportunistico, pur essendo certamente più credibile dei democratici non riconquista un elettorato povero, indigente, rabbioso e “di classe“.

Al PD manca la credibilità necessaria di essere finalmente una ritrovata, rinnovata sinistra moderata e riformista; ai Cinquestelle manca la struttura organizzativa sui territori per poter essere quel partito di massa che ha preteso di diventare in pochissimi mesi da posizioni comunque di governo e post-governo.

Quarti incomodi

Discorso a parte per Unione Popolare. Il fatto che fosse presente una alternativa ai tre poli e che, nonostante le piccole percentuali delle politiche scorso, fosse nuovamente sulle schede elettorali, non ha premiato la corsa della federazione dei partiti della sinistra di alternativa e anticapitalista.

Il messaggio è tanto distante da una popolazione che non riesce ad essere avvicinata da temi dirimenti e importanti, anche declinati nelle reali problematiche quotidiane delle singole regioni, province e città, ma che individua nelle ricette delle destre una soluzione repentina e nei potenziali numeri del centrosinitra un contenimento della marea meloniana e salviniana.

Tante volte ce lo siamo detti: non basta avere ragione, come pensiamo di averne. E non è sufficiente sognare un leader alla francese capace di empatizzare, di creare un legame quasi spirituale con una forza politica che oltre a provare a risolvere la miseria del concreto di ogni giorno, permetta anche di proiettarsi nel sogno, nell’idea e nell’ideale, in una ritrovata voglia di rivoluzione, di capovolgimento a centottanta gradi dell’odiernità.

La federazione di Unione Popolare è, nonostante tutto, una necessità che non va dispersa, sciolta e abbandonata. E’ vero che i successi e gli insuccessi elettorali sono fondamentali per l’esistenza di un partito in una democrazia parlamentare, in un regime in cui la rappresentanza istituzionale è data dalla delega popolare.

Per fare questo serve una tabula rasa: serve un processo costituente vero e non solo annunciato da buone intenzioni. Bisogna avviarlo e chiamare alla discussione e alle decisioni tutte e tutti coloro che vogliano fondare una nuova forza politica di sinistra di classe, tutt’altro che riformista, incapace, perché determinata nel contrario, di scendere a patti con un campo largo che batterebbe le destre soltanto sul terreno dell’elettoralismo e, immediatamente dopo, ne continuerebbe le politiche liberiste.

Ma è altresì vero che senza una preventiva costruzione massiva nei territori, a cominciare dai quartieri, in tutti i posti di lavoro e nelle scuole, non c’è aggregazione che possa risalire la china e ridare voce a milioni e milioni di esclusi tanto dalla società quanto dal voto.

La costituente dei Unione Popolare deve essere contigua al lavoro politico di contrasto delle azioni di governo e di critica delle opposizioni, per marcare una netta distinzione tra ciò che oggi è e ciò che dovrebbe invece essere se in Italia avesse nuovamente voce nel Paese e nel Parlamento un progressismo privo di inquinamenti liberali e liberisti, senza unità col centro, senza accondiscendenza verso eventuali nuove “unità nazionali“.

Le ragioni di una vittoria

La destra premia le richieste di larga parte del suo elettorato di classe: quella media borghesia che la vota per conservare i propri privilegi e lasciare indietro le esigenze di giustizia sociale cui, pelosamente, comunque il partito meloniano fa riferimento nei comizi e negli slogan per garantirsi una larghezza di consensi che vada ben oltre i soli punti di riferimento economici da rappresentare nelle stanze del governo, e poter in questo modo dire ed essere una forza di massa, una forza nazionale, una forza interclassista.

La destra vince non solo perché si presenta sempre compatta agli appuntamenti elettorali, ma anche e soprattutto perché questa compattezza le deriva da una precisa, identificabile fisionomia di appartenenza: al ceto medio, all’imprenditoria, al mondo della finanza e dell’economia di mercato. La destra non ondeggia come il PD e il centrosinistra tra tentazioni riformiste bonacciane che guardano al dialogo con Renzi e Calenda e un neoriformismo di sinistra schleiniano.

La destra non è ambigua. Apparentemente. Entra in contraddizione con sé stessa quando deve governare, ma riesce a gestire le sue crisi grazie alla leva del populismo e del conservatorismo di facciata, mostrando ai più poveri di essere la paladina dell’italianità, dei bisogni degli autoctoni e della naturale predilezione per una equità che invece, nel momento delle scelte importanti e dirimenti, si trasforma nella più esiziale delle traduzioni fattive proprio per coloro che a parole dice di voler tutelare.

Ma, di contro, il PD e i suoi alleati non sono stati in tutti questi ultimi lustri un esempio di linearità e di consequenzialità tra il dire e il fare. Hanno sostenuto le peggiori istanze del politicismo e del tecnicismo mercatista; hanno applaudito a riforme che si sono rivelate salassi inenarrabili per le classi più povere, per il mondo del lavoro e per quello della scuola reso una variabile dipendente dalle esigenze confindustriali e del padronato in generale.

I Cinquestelle, nonostante la folgorazione progressista degli ultimi mesi, al netto della cosiddetta “svolta contiana“, non hanno brillato per una migliore credibilità in merito. Prima puristicamente solitaria nella corsa spocchiosa del grillismo di primo pelo. Poi con la Lega nel governo giallo-verde. Poi con il PD in quello giallo-rosso (ma più rosa che rosso…). E infine nella grande ammucchiata draghiana per la salvezza di una Repubblica abbandonata a sé stessa.

Le profferte delle voci flebili della sinistra di alternativa, tanto alle sinistre moderate di Fratoianni quanto ai Verdi di Bonelli, nonché al M5S, per creare un polo davvero progressista, non più alleato del centro politico antisociale, sono state tutte scartate, inascoltate, irrise e relegate all’angolo con l’etichettatura di un infamente ideologismo settario e controproducente.

Il risultato è la schizofrenia tattica di due forze, PD e Cinquestelle, che laddove vi era l’oggettiva e fattibile contendibilità del successo delle destre si dividono e, invece, dove era certa la vittoria delle stesse (quindi in Lombardia) si uniscono. Con, sempre presente, lo spettro del campo largo lettiano, carezzato da Bonaccini, di fare come nel Lazio: privilegiare il dialogo con il Terzo polo e tralasciare quello con Conte e il suo progressismo di nuovo modello.

La destra, invece, pur tra mille polemiche, e nonostante la scissione della Moratti al nord, offre all’elettorato una proposta unitaria prima di tutto sul piano delle intenzioni e, poi, anche dei programmi. Poco importa che poi si rimangi le promesse e faccia del suo peggio per portare avanti un progetto di autonomia regionalista che «vuole – parole del ministro Santanché – premiare il merito» e quindi il virtuosismo economico da luogo a luogo, lasciando indietro chi non ce la fa.

Poco importa. Quello che conta è la presentazione di una offerta politica che dia una certa idea di fiducia e di credibilità, laddove è introvabile, laddove è impercettibile. Insomma la destra, se ancora non si fosse capito, vince perché fa la destra. La sinistra non vince perché non fa la sinistra. E quella che prova ad esserlo è ancora troppo debole per poter tentare di provarci sul serio.

MARCO SFERINI

14 febbraio 2023

foto: screenshot

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