In realtà dietro la promessa dei paesi occidentali fatta allo sharīf al-Ḥusayn ibn ʿAlī Al Hashimi, signore delle zone circostanti la città santa de La Mecca e della medesima, di ottenere per gli arabi una completa indipendenza si nascondeva un progetto di neocolonizzazione simile a quello dei protocolli di Sykes-Picot degli anni a cavallo e appena posteriori la Grande guerra.
Qualcosa dovevano aver pure subodorato i beduini del deserto: perché anche loro avevano promesso agli inglesi e ai francesi di sollevarsi in massa contro le autorità militari e politiche ottomane, ma questa rivolta interna all’esercito, e che avrebbe dovuto avere un risvolto immediato nella fascia di territorio compresa tra il sud dell’attuale Turchia e la zona delle città sante all’Islam, non trovò mai la sua concretizzazione.
La vita di Thomas Edward Lawrence subisce una svolta davvero epocale in questo grande, fascinoso e misterioso lembo di costa tra il Mediterraneo orientale e il Mar Rosso. Là dove oggi si combattono guerre genocidiarie, dove a Gaza, avamposto delle truppe sultaniali contro quelle anglo-egiziane che non possono raggiungere la Palestina, la resistenza rimane forte, c’era un tempo il profumo del mare e il vento del deserto.
A scompigliare i capelli biondi del giovane studioso, archeologo e militare nato nel Galles una ventina di anni prima che la guerra invadesse ogni lembo d’Europa: dalla dichiarazione di ostilità dell’Austria Ungheria nei confronti di Belgrado per puntare su un riassetto dei Balcani in chiave anti-russa. E questo nonostante lo zar Nicola e il kaiser Guglielmo, che erano strettamente legati come cugini di primo grado, avessero cercato di evitare, almeno nei primordi delle incertezze vicendevoli, lo scoppio del conflitto.
Lawrence è, come scrive Franco Cardini nella sua docile biografia che si legge tutta d’un fiato (“Lawrence d’Arabia“, Sellerio editore Palermo, prima edizione 2006, seconda edizione 2019), misterioso tanto quanto la fama che lo circonda dopo l’impresa della “rivolta araba” contro gli ottomani. I suoi fini tratti fisiognomici, il suo candore, la sua dolcezza si congiungono ad una risolutezza ed a una determinazione che stupirà i principi del deserto: Hussein e Feisal tra tutti.
Tutti i suoi incontri con le genti della geopoliticamente indefinibile “nazione araba” saranno, paradigmaticamente, il contatto più diretto che le tribù del deserto avranno con un Occidente insincero, guardingo e pronto a sostituirsi alla Sublime Porta nel dominio del Medio Oriente. Questa è una verità che un po’ tutti intuiscono, perché i precedenti in Africa sono ben noti, così come in Asia.
L’Impero britannico domina su vaste aree del pianeta e la Grande guerra è l’occasione per espandere ancora di più quel Commonwealth che raduna popoli tanto diversi quanto lontane sono le distanze che li separano. L’Arabia è un orizzonte enigmatico, rasenta l’onirismo nell’ipnosi che genera in quei visitatori, proprio come il colonnello Thomas Edward, che ne restano frastornati prima e innamorati poi. Di una cultura così differente da quella europea; di un modo di vivere altrettanto civile e ordinato.
La culla dell’umanità, del resto, almeno di quella che fingiamo di rappresentare noi occidentali da soli, tralasciando la globalizzazione per qualche attimo, è affidata alla protezione del Tigri e dell’Eufrate e Baghdad è una grande capitale conquistata ormai da secoli. I turchi spadroneggiano dall’esausto impero persiano degli shah fino a quello che oggi è uno Yemen in continua rivolta e guerra civile.
Tuttavia non esiste un confine preciso: il nomadismo delle tribù impedisce o, se vogliamo, favorisce una cittadinanza araba disomogenea. Là dove si immagina e si cerca l’unità della nazione, ebbene lì si trova il fratricidio, la lotta per motivi dinastici, religiosi, economici. Sciiti e sunniti si combattono un po’ da sempre e l’idea moderna di un watan, di una patria per come la intendiamo oggi noi, è qualcosa che incede soltanto con l’esponenzializzazione della guerra che dall’Europa piomba nel Medio Oriente.
Nel 2022, ad un asta che si sta tenendo in Inghilterra, compare un capitolo scomparso dell’opera principale del colonnello britannico-gallese (“I sette pilastri della saggezza“). Forse cancellato dallo stesso Lawrence per le critiche che contiene nei confronti della politica di Londra e Parigi verso le popolazioni arabe in rapporto alla conduzione della guerra contro la Turchia e, in particolare, del dopoguerra.
Scrive il colonnello: «Il governo indusse gli arabi a combattere per noi con precise promesse di autogoverno in seguito. Gli arabi credono nelle persone, non nelle istituzioni». Ed è per questo che Hussei e Feisal si fidano di lui. Così lui di loro. Nello sceriffo del Wadi Safra vede addirittura, enfatizzando certamente un po’, una sorta di Riccardo Cuor di Leone che si mette alla testa del watan arabo rinato e, dopo Aqaba, punta sul centro del governo ottomano nella zona: Damasco.
Proprio la distanza che separava il quartier generale di Feisal dal cuore della guerra, così come era visto e oggettivamente tale nella faida mediorientale, è tema di discussione anche accesa e di dibattito con le tribù che Lawrence riunisce sotto il suo comando: bisogna attaccare e non stare sulla difensiva. La Mecca è già stata strappata alle truppe sultaniali una, due volte. Tante altre è stata ripresa dai dominatori turchi.
Ma la guerra è altrove, è più a nord tra la Palestina e la Siria, a ridosso dei confini di quella che diventerà poi la Repubblica turca di Mustafà Kemal. Lawrence pare scavare a fondo nella cultura e nella civiltà araba proprio come da archeologo faceva per trovare i reperti antichi delle preesistenti popolazioni su un determinato luogo. Il passato lo seduce tanto quanto il desiderio di unirlo al presente e di stabilire una sorta di continuità temporale che valga anche sul piano storico, politico e sociale.
Il guaio delle guerre è che, fin dal primo momento in cui scoppiano, sono i più grandi inestricabili rebus che si possano incontrare; difficilmente qualcuno ne può prevedere gli sviluppi e le conseguenze ultime. Il campo visivo è cortissimo e si riduce ai rapporti di forza immediati che, tuttavia, non fanno che cambiare continuamente.
Per fare qualche esempio: nel momento in cui gli austroungarici attaccano il Veneto, provando con la “battaglia degli Altipiani” (altrimenti detta da noi “strafexpedition“) a sfondare nella pianura padana, il comandante degli imperiali, il feldmaresciallo Conrad è persuaso che si possa proprio da lì risolvere la guerra con l’Italia e chiudere un fronte scomodo. Andrà del tutto diversamente, con alterne vicende tra Gorizia prima e Caporetto poi, ma nulla sarà come poteva essere previsto dagli alti comandi.
A Vienna, del resto, come anche ad Istanbul, ritengono che la questione balcanica sia – e forse debba essere – il cuore delle ragioni della Grande guerra che, ancora, non è chiamata così e che, quindi, è immaginata come un conflitto regionale allargato e non mondiale. Tutto questo incide profondamente anche nella vita di Lawrence che, dopo l’ingresso della Turchia nel conflitto, vede spostarsi parzialmente il baricentro delle ostilità dall’Europa al Medio Oriente e, così, l’interesse imperialista delle potenze occidentali.
Thomas Edward sarà anche un po’ bislacco e strambo, ma è un uomo intelligente, di grande cultura, capace di sintetizzare ciò che appare nettamente opposto e di trovare quasi sempre un punto di congiunzione spesso lungimirante e proprio là dove le diplomazie rischiano di fallire o gli ardimenti militari di spegnersi quasi sul nascere per la mancanza di certezze in base agli schemi consueti dello svolgimento delle battaglie.
In un certo senso, la rivolta araba è proprio questo: il fiancheggiamento “irregolare” della guerra anglo-franco-egiziana all’Impero ottomano. Un aiuto quasi insperato alle azioni dell’Intesa che avanzano tra i due fiumi e prendono, una dopo l’altra, le città mesopotamiche ma che, ancora a metà del 1916, faticano ad oltrepassare il Sinai e a dilagare nella Palestina e poi in Siria. Passionale e risoluto, Lawrence è un condottiero che non vince il dubbio. Se lo porta sempre appresso.
Si interroga sul senso delle cose, della vita, della guerra. Ma agisce e non si ferma. Getta qualcosa di più del cuore oltre l’ostacolo e sfida pregiudizi, tradizioni, costumanze, riti e ordini nel nome dell’unità dei popoli di un’Arabia che lui sogna libera tanto dall’influsso orientale quanto da quello occidentale. Nel breve spazio della sua esistenza, è tanto l’agente segreto al servizio di Sua Maestà quanto una sorta di capo rivoluzionario, di eroe del deserto, acclamato e venerato. Ma anche odiato e disprezzato.
E non soltanto dai fedelissimi del sultano. Siccome costringe ad un raffronto tra mondi così differenti, mette in serio pericolo le certezze colonialiste britanniche da un lato e la completa sicurezza e fiducia degli arabi dall’altro. Lui è pur sempre un britannico, un uomo di Londra (o Cardiff). Fino a che punto è possibile per la nazione araba poter far fede sulle sue promesse?
Proprio in quel capitolo cancellato e venduto all’asta londinese nel 2022, l’amarezza per il prosieguo della politica coloniale europea e, nello specifico, del suo paese nei confronti dei territori perduti dalla Sublime Porta sarà uno dei motivi di una progressiva lontananza dall’impegno militare. Si dimetterà, a guerra finita, dalla carica di consigliere politico degli Affari Arabi e dall’esercito, rinunciando persino alla carica di Viceré delle Indie e alla più alta onorificenza britannica: la “Victoria Cross“.
Cardini indugia parecchio sul carattere del colonnello che, infatti, è uno degli aspetti più controversi nella traduzione tanto personale quanto politico-militare delle sue epopee. Si è scritto anche troppo su presunte tendenze omosessuali che gli avrebbero, di fatto, offuscato il giudizio, ad esempio, su Feisal. Ma la prosa descrittiva dei “Sette pilastri” non deve ingannare. Somiglia tanto alla poesia perché subisce il fascino delle dune e dei tramonti; delle lune e dell’errabondare delle carovane.
La verità è che il suo presunto amore per gli uomini è stato preso a pretesto per confondere storicamente la sua figura e farne un avventuriero da strapazzo piuttosto che riconoscergli, con tutti i pregi e i difetti del caso, la caparbietà e la sagacia con cui ha saputo condurre la rivolta araba alla vittoria. Il clima sociale e politico dell’epoca ha acuito le millenarie differenze tra ottomani e arabi, nonostante la condivisione della medesima fede (fatte salve le differenze, e non sono poche, tra le interpretazioni della stessa nel magmatico mondo tribale del deserto).
I turchi sono nemici che, come prevede Lawrence e come intuiscono gli arabi anche grazie a lui, verranno sostituiti da nuovi conquistatori. L’indipendenza che conquisterà il regno saudita prenderà spunto dalla purezza islamica piuttosto che dal panarabismo. L’Impero ottomano, del resto, non riuscirà mai a controllare completamente questa immensa area desertica, attestandosi ai lati della stessa sulle coste del Mar Rosso da un lato e alle foci del Tigri e dell’Eufrate nella Golfo Persico dall’altro.
Per capire il percorso di vita di Lawrence è utile, insieme ovviamente alla visione del celebre film che gli è stato dedicato da David Lean e magistralmente interpretato da Peter O’Toole, Alec Guiness, Anthony Quinn e Omar Sharif (qui verrebbe da dire, “di cognome e di fatto“) nel 1962, la lettura della sua tesi di laurea sui castelli crociati proprio nelle terresante per i cristiani. Semplice autodidatta, il futuro colonnello e ispiratore della rivolta araba contro i turchi, viaggia in lungo e in largo per le terre di Palestina e di Siria.
La sua indagine è tanto archeologica quanto storica, tanto militare quanto antropologica. Nel cercare di comprendere se gli europei si siano adattati (e abbiano quindi acquisito) le nozioni arabe sulle edificazioni delle fortezze, compie una disamina particolareggiata dei siti che visita e ne trae – a differenza di altri studiosi – la percezione opposta: i crociati costruirono con le conoscenze che possedevano e che importarono dal Vecchio continente.
Soltanto in seguito, dopo le prime lotte ingaggiate per la conquista di Gerusalemme e del Santo Sepolcro, le tattiche e le strategie militari occidentali impareranno da quelle orientali e si realizzerà una prima compenetrazione tra le due culture, seppure in ambito mortiferamente bellicistico. Questi studi non solo permetteranno a Lawrence di eccellere ad Oxford, ma gli saranno utili nella conoscenza profonda della cultura araba e gli forniranno le premesse per continuare in questa direzione.
Così come in parte la vita, anche la sua morte rimane enigmatica e misteriosa. Scrive Cardini: «Al mattino del 13 maggio del 1935, mentre sulla sua motocicletta tornava a casa, a Clouds Hill, dopo un giro di piccole commissioni, subì il più banale degli incidenti: cercando di evitar l’investimento di due ciclisti comparsigli d’improvviso dinanzi, sbandò e finì con violenza contro un albero. Sarebbe rimasto in coma quattro giorni… Spirò al mattino di domenica 19 maggio».
Ovviamente intorno a questa morte inaspettata si iniziò a vociferare. Come fosse stato possibile, perché, percome… Una fine che nessuno si aspettava e quindi capace di suscitare le ipotesi complottiste più disparate. Dalla fatalità che può colpire chiunque di noi si passò all’orchestrazione di qualche servizio segreto… Purtroppo la vita, anche quella più epica e grande, può essere spezzata da quella che può essere considerata una stranissima, incomprensibile inezia.
Così, la pace e la sovranità che Lawrence aveva sognato per gli arabi, ancora oggi deve trovare un nome, un luogo e un posto nel presente per diventare un giorno parte della storia di un Medio Oriente in cui la guerra è lo stato di sopravvivenza permanente…
LAWRENCE D’ARABIA
FRANCO CARDINI
SELLERIO EDITORE PALERMO
€ 14,00
MARCO SFERINI
21 agosto 2024
foto: particolare della copertina del libro
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