Aprire i quotidiani al mattino, sfogliarli anche su Internet, dovrebbe essere un piacere. Invece ogni giorno si ripetono notizie di sfruttamento del lavoro che fanno impallidire gli ultimi anni del secolo decimonono quando il movimento operaio si stava formando e le prime rivendicazioni dei diritti sociali si facevano impetuosamente avanti.
La complessità delle forme di asservimento è tale che si fa fatica a seguirne i passaggi, a comprendere come possano tanti tasselli concatenarsi e inanellarsi senza che un micro ingranaggio del sistema li fermi, li riconosca come illegali (oltre che immorali) e ne dichiari lo “stop”.
Ma questo sistema politico, di gestione del lavoro schiavistico – ad esempio – nel campo agricolo è connivente con una strutturazione economica che si basa sul ricavo del massimo di profitto dall’utilizzo oltre ogni umana condizione, oltre ogni contratto anche minimo, oltre ogni parola data, oltre ogni dignità. Oltre ogni legge e oltre la Costituzione.
In Puglia, il 50% delle aziende agricole commette delle irregolarità (quindi degli abusi) sulle assunzioni e il caporalato diventa un regime normale, consuetudinario.
E la consuetudine è più potente, più forte e coercitiva di una legge fatta dal Parlamento. La consuetudine è una controcultura, in questo caso, che si impone e che si estende a macchia d’olio senza alcuna soluzione di continuità.
La raccolta del pomodoro è il simbolo di questo caporalato moderno, di un sistema di impresa che è mero schiavismo e che, come racconta oggi Gianmario Leone dalle pagine de il manifesto, si radica anche socialmente in luoghi esclusivi, in vere e proprie autocostruzioni di ghetti dove i migranti (per la stragrande maggioranza, coloro che accettano condizioni di deprivazione di qualunque diritto sindacale e umano sono i più disperati che vengono qui “da noi” a “toglierci il lavoro”…) si radunano e dove sopravvivono peggio che nelle baracche dell’apartheid sudafricano.
Salvini urla dalle piazze e dalle televisioni che questi ragazzi che vengono dall’Africa ci sottraggono occupazione.
Vedendo l’andamento quotidiano delle loro non-vite, forse possiamo più correttamente affermare che ci affrancano da una schiavitù che nessuno può ragionevolmente apprezzare.
Ecco le nostre frontiere, i nostri percorsi di ricostruzione della sinistra: una sinistra anticapitalista e antiliberista, che abbia una visione alternativa del sistema in cui viviamo, deve abbracciare lavoro e dignità e far marciare questi due elementi in simbiosi con la libertà.
Del resto, vengono sempre a mente le parole di chi, da più parti della sinistra italiana nel corso della lunga vita della Repubblica, affermava che senza giustizia sociale non può esservi veramente piena libertà. E viceversa.
Anche per questo non si può lasciare la bandiera della difesa dei diritti sociali e civili nelle mani di un movimento populista nero a tinte gialle (che ha già dato molte prove del suo non essere né antirazzista, né antifascista… ma trasversale in tutto e per tutto su ogni argomento, per piacere tanto al cittadino di destra quanto a quello di sinistra) o nelle mani di un partito xenofobo a tinte verdi o, ancora, nelle mani di chi si dice democratico, governa e non mette in campo nessuna riforma veramente sociale, ma accentua il disagio dei più deboli e dei più sfruttati.
L’impopolarità è messa in conto quando si difendono diritti universali: c’è sempre qualcuno che soffia sul fuoco per interesse e che fomenta la paura di chi ha il timore di vedersi portare via qualcosa che ha, da qualcuno che arriva e che, invece di ricevere solidarietà e accoglienza, ottiene solo di curvare la schiena per dieci e più ore al giorno sui campi della Puglia per pochi miseri euro…
MARCO SFERINI
redazionale
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