La controriforma calderoliana sui rapporti tra Stato e regioni, sulla cosiddetta “autonomia differenziata“, assurge, via via che trascorrono i giorni, ad impostazione sovrastrutturale di un preciso calcolo economico che, come nota molto bene Alfonso Gianni su “il manifesto” (ne riportiamo l’articolo qui), è la prosecuzione in chiave istituzionale del regime liberista che si è affermato da mezzo secolo a questa parte.
Il regionalismo che sopravanza il nazionalismo pare, oggettivamente, entrare in contraddizione frontale con i propositi anche della punta di diamante della destra nostrana odierna fratellitaliota, per ragioni puramente di interpretazione del ruolo delle istituzioni nel culturame conservatore leghista contro quello più marcatamente e storicamente nazionalitario del post-fascismo ancora fiammeggiante. Tuttavia, il disegno comune, degli alleati di governo per intero, pur non essendo privo di contraddizioni, pare marciare spedito verso la sua concretizzazione.
Uno Stato forte sul terreno economico è, oggi, uno Stato che valorizza le sue particolari aree di ricchezza che sono, anche nella considerazione internazionale, nel migliore dei casi delle macro-regioni, nel peggiore delle singolarità molto locali, spesso delle propaggini di altre grandi industrie globali, delle dependance di profitto calate anche in Italia da una diffusione indistinta dei centri di produzione vincolati al solo merito di avere sempre maggiore forza-lavoro e materie prime al minor costo possibile.
Insomma, per dirla molto fuori dai denti e da ampollosi giri di parole, mentre la Costituzione repubblicana rispondeva, all’atto della sua elaborazione e della sua nascita, ad un criterio di necessità sociale, di condivisione dei diritti e, insieme, dei doveri, oggi una riforma dell’architettura dello Stato, sia essa sull’autonomia differenziata tra regioni ricche e regioni invece povere e depresse, sia riguardi invece la torsione presidenzialista ricercata da Giorgia Meloni, verte esclusivamente su un adeguamento del Paese agli standard dell’economia europea e alla concorrenzialità mondiale.
Si vuole costruire uno Stato dei ricchi, per i ricchi e gestito dal governo che quei ricchi intende proteggere e tutelare a tutto discapito delle fasce veramente indigenti, scivolanti verso il piano inclinatissimo della recessione, della stagflazione che, in quanto fenomeno dilagate e riguardante prima di tutto il prelievo fiscale impari (oltre che le speculazioni finanziarie), si ripartisce in maniera inversamente proporzionale sulla popolazione, al pari di una tassazione indiretta.
Il piano di espansione liberista si consolida così attraverso una presunta valorizzazione delle eccellenze industriali, dei nostri prodotti particolari, delle nostre caratteristiche fondanti lo sviluppo di un Paese che deve fare i conti con la condizione di destabilizzazione europea che non viene affrontata da misure condivise tra i Ventisette, ma che invece conosce ancora una volta la risposta unilaterale, di ogni singola nazione della UE, al fine di tutelare nello specifico proprio quella particolarità nazionale che riforme come quella calderoliana negano.
Non si tratta dell’apertura di una riflessione su un aggiornamento costituzionale, su una ricalibratura dei poteri dello Stato meramente tesa ad un adeguamento alla difficilissima fase della policrisi in cui siamo completamente immersi. Tutt’altro. Si ttratta semmai di uno sfruttamento della crisi multipolare stessa e multistratificata, di un approfittamento della congiuntura sfavorevole per trarre vantaggi politici ed economici.
I partiti della destra di governo intendono capitalizzare non soltanto delle battaglie ideali (ed ideologiche) di lungo corso, ma pretendono di accelerare una rivoluzione negativa per la democrazia repubblicana, uno snaturamento dell’originalità e dell’originarietà dell’impianto premesso dai Costituenti come indefesso nume tutelare di un popolo italiano troppe volte sedotto dall’uomo solo al comando, dalla concentrazione nelle mani di pochissimi di prerogative che, soprattutto oggi, toccano esclusivamente al Parlamento.
Il liberismo, lo abbiamo più volte letto, sentito, visto e scritto, non ama troppo le contorsioni democratiche, la dialettica delle grandi aule che discutono come meglio formulare una legge nell’interesse comune, nella tutela essenziale dei beni comuni stessi.
La logica dello Stato politico forte è, proprio per questo, legata dal regime capitalistico moderno ad uno snellimento delle procedure, ad una esaltazione del decisionismo che eviti, non fosse altro per non alienarsi il favore delle masse, di scivolare nella spudorata riproposizione di regimi totalitari inventati e mutuati nel secolo scorso.
Adoperare la democrazia per superare la democrazia stessa è una arguta e niente affatto sconosciuta pratica di circonvenzione di incapaci, meritevoli solo di rivendicare una apparenza, di un formalismo istituzionale che si identifica con un ritualismo di un galateo di palazzo e niente di più. La pochezza della cultura sociale e civile, della critica politica ed economica, dell’unità delle forze che dovrebbero proteggere la Repubblica dagli antigeni che le vengono introdotti malignamente dalle controriforme della destra è messa a dura prova anzitutto dalla difficile spiegazione di questo pericolo.
Non è semplice evitare l’accusa di complottismo in questi frangenti. Sebbene derivi più che altro da un esercizio retorico non certo molto popolare e diffuso, visto il sempre minore livello esattamente culturale della popolazione italiana e il suo interesse nei confronti della gestione della res publica mediante politica così tanto disprezzata e odiata per i suoi trascorsi di corruttela e di perversa commistione tra pubblico e privato.
Coniugare l’interesse economico strutturale con il sovrastrutturalismo di un adeguamento delle istituzioni al nuovo corso liberista degli eventi, rischia appunto di sembrare un disegno tanto grande da essere impensabile. Ed invece è esattamente quello che è accaduto in altre nazioni in cui non la politica, bensì l’economia ha fatto da traino alla vita civile e sociale di un paese e ne ha determinato, fino nei più piccoli ambiti, il corso dentro la vastità tremenda dell’aumento esponenziale della crisi globale.
La riforma di Calderoli è, prima di ogni altra cosa, una garanzia per il mondo delle imprese e della finanza di avere tutelate dalle regioni (e non dallo Stato nella sua interezza) quelle risorse e quei privilegi che riguardano ambiti di produzione consolidati, dove sono a livelli medi europei tanto l’istruzione pubblica, resa una variabile dipendente del padronato (alternanza scuola-lavoro), quanto tutti gli altri servizi pseudo-sociali che, invece di essere sostenuti dal gettito pubblico, sono finanziati dal privato.
La logica che innerva tutto questo procedimento è separatista di per sé stessa, quasi per definizione, perché non può riguardare macroregionalità così differenti tra nord e sud dell’Italia, tutelando allo stesso tempo l’unità socio-economica del Paese. L’abbandono al suo destino di un Mezzogiorno agricolo, immagine ormai consolidata di un pauperismo di nuovo modello, non è un dato di fatto: è un dato prima di tutto politico. E come tale va combattuto e contrastato.
Le Regioni con la erre maiuscola, gli enti locali ed autonomi garantiti dalla Carta del 1948, devono essere ripensati nel loro ruolo: va rimesso in discussione un disequilibrio dei poteri che sono stati loro attribuiti, ad esempio in materia sanitaria, di gestione del patrimonio ambientale, culturale. E così va rivisto ogni rapporto tra le ripartizioni territoriali della Repubblica che sono amministrazioni locali. Province e comuni compresi.
Lo “Stato unitario“, per definizione, è tale se ha il controllo ultimo su tutte le materie che interessano l’interezza della popolazione, la completezza dei servizi sociali che devono, se non altro, essere erogati da un eguale punto di partenza, da minime condizioni essenziali per potersi dire tali ed essere di sostegno anzitutto ai più deboli, a quelli che, proprio da una crisi come quella odierna, esposti alle peggiori risultanze, sono costretti ad essere davvero l’ultimo anello della catena.
Il coraggio che è necessario avere è il contrasto di una tendenza fintamente federalista, altrettanto ipocritamente differenziatrice tra le aree del Paese se non sulla base della domanda liberista che esige il maggiore sfruttamento possibile dei salariati, dei giovani che vanno in apprendistato, dei precari che sono i primi nella scala del ricatto antisociale da parte del regime imprenditoriale.
E questo contrasto, questa lotta contro le differenze rese autonome tra loro, che finiscono con l’essere il fulcro dell’ampiezza progressiva tra ricchezza e povertà contemporanea, a dover diventare uno degli assi portati di una lotta contro le diseguaglianze a tutto tondo: non possiamo pensare di esaurire il compito del progressismo di oggi nella sola importante, necessaria e imprescindibile azione di critica sociale.
L’atto politico di ogni forza partitica e di movimento che voglia preservare l’unità dei diritti deve puntare alla messa in sicurezza dell’unità di una Italia dove non vi siano venti tipi di sanità differenti, per fare uno degli esempi più eclatanti in cui già da tempo si sono scavati solchi diventati veri e propri argini tra il nord e il sud dello Stivale. Deve puntare alla centralizzazione come sinonimo amministrativo e istituzionale di uguale riconoscimento dei diritti sociali, civili e morali.
Il pericolo è che si passi dal “riconoscimento” alla “concessione” di tutto ciò che è previsto dall’articolo 3 della Costituzione e, quindi, si faccia della Repubblica qualcosa di a sé stante rispetto all’insieme della cittadinanza, della collettività, di quello che, un po’ giacobinamente, è bello definire come “popolo“.
Fermare la controriforma dell'”autonomia differenziata” è una premessa importante per la ricostruzione di una sinistra anche di governo ma, almeno in questa fase, di netta opposizione ad un governo che deve essere contrastato senza alcuna tregua.
MARCO SFERINI
5 gennaio 2023
Foto: screenshot tv