La crescita cinese degli ultimi quarant’anni, oltre a ovvie implicazioni interne – rimaste per lungo tempo per lo più nell’ambito degli studi sinologici – ha comportato anche l’irruzione di Pechino sullo scenario globale come forza in grado di determinare cambiamenti nelle relazioni tra grandi potenze. Questo processo ha finito per spostare l’attenzione di studiosi e analisti sul continente asiatico in generale, molto più di quanto avveniva in precedenza.
A sottolineare questo aspetto sono arrivate recenti pubblicazioni che pongono proprio nell’Asia (e non solo nella Cina) un’attenzione del tutta nuova, soffermandosi sulla rinnovata influenza del continente, sull’impatto operato nella storia come la conosciamo, ovvero per lo più incentrata sugli avvenimenti occidentali, o ancora portando a porre il dilemma su un possibile scontro tra le due potenze più rappresentative dei due mondi, Usa e Cina. Il secolo asiatico? di Parag Khanna (Fazi editore, pp. 522, euro 25) è uno di questi studi da poco pubblicati e analizza l’ascesa di un intero continente, passando per diverse fasi e attraverso differenti chiavi di lettura.
Anzitutto bisogna fare una precisazione, perché c’è un problema di orientalismo da risolvere, da sempre: l’abitudine di guardare a quanto accade nel mondo orientale provando ad auto-suggerirci letture fortemente dipendenti dal nostro sistema valoriale, non ci permette di comprendere a pieno una sorta di «respiro» che arriva direttamente dall’umanità asiatica, dalla sua storia antropologica e culturale, ancora prima della sua proiezione economica e geopolitica.
A questo proposito Khanna specifica subito: «Dovremmo smetterla di giudicare, interpretare o giustificare dall’esterno le storie e le realtà degli asiatici. Gli occidentali dovrebbero provare a mettersi, anche brevemente, nella scomoda posizione di immaginare cosa significhi quando a cinque miliardi di asiatici non importa nulla dell’opinione degli occidentali e, anzi, ritengono che siano questi a dover dimostrare la loro rilevanza agli asiatici e non viceversa».
A questo proposito il caso cinese è illuminante. Noi chiamiamo «censura» – ad esempio – il blocco che Pechino ha operato ormai da tempo su tutte le piattaforme social occidentali (da Facebook a Twitter, da Instagram a Whatsapp): è sicuramente una forma di controllo che il partito comunista prova a esercitare sui contenuti che si trovano on line, ma è innegabile che i cinesi vivano lo stesso la propria realtà senza l’utilizzo di questi strumenti occidentali. Semplicemente ne hanno altri e non sono interessati alle nostre «chiacchiere da social».
I pochi attivisti o dissidenti che lottano ogni giorno contro le maglie della censura, utilizzano proprio gli strumenti cinesi per comunicare con i cinesi. A questo si aggiunge un altro elemento non da poco: quella che per noi è solo censura per la Cina è anche il volano perfetto per le proprie aziende. Quando oggi discutiamo di big companies cinesi nel campo della tecnologia, dovremmo ricordarci che senza la censura probabilmente non sarebbero mai nate.
Detto che gli asiatici «non sono in cerca di conquista, ma di rispetto», Khanna entra ben presto nel vivo dell’argomento: per gran parte della storia documentata «l’Asia è stata la regione più importante del globo». Fino a metà 1800, per rimanere in tempi più vicini a noi, India, Giappone e Cina «hanno generato collettivamente un prodotto interno lordo superiore a quello degli Stati uniti, del Regno unito, della Francia, della Germania e dell’Italia messe insieme».
Poi è arrivata la rivoluzione industriale e la conquista coloniale da parte delle potenze europee. Infine, «mentre l’Occidente era impegnato a combattere e a vincere la guerra fredda, l’Asia ha iniziato a guadagnare terreno. Negli ultimi 40 anni anche in virtù dello spostamento della produzione in Asia, la fetta più grande della crescita economica globale è andata agli asiatici». Khanna trova una chiave di lettura semplice, ma efficace: in questi 40 anni i giovani asiatici e i giovani occidentali, le future generazioni, hanno vissuto in modo ben differente il proprio tempo. Soffermandoci sugli ultimi 20 anni, mentre in Occidente irrompeva la crisi e la persistenza della muscolarità Usa in ogni area del mondo, «miliardi di giovani asiatici hanno conosciuto stabilità geopolitica, prosperità economica e crescente orgoglio nazionale». Il mondo che conoscono i giovani asiatici non è certo quello del dominio occidentale, bensì «quello dell’ascesa asiatica».
Una delle parti più affascinanti del volume di Khanna è l’excursus storico che si concede, dimostrando come la storia del continente asiatico, di cui sappiamo poco e di cui tengono poco conto le nostre storiografie eurocentriche. Tra cambiamenti e tentativi di continuità, la storia asiatica mostra prima di tutto la ricchezza di quest’area geografica in termini di lingue, credenze, scambi commerciali e culturali. Nel libro viene ricordato – ad esempio – che la lingua franca dell’antica via della seta era il persiano e non il mandarino, a dimostrare il recente tentativo cinese di mettere le mani su una storia molto più collettiva e non solo «cinese» e che la diversità religiosa era un altro «pilastro» della civiltà asiatica. «Gli imperi europei, prosegue poi Khanna, prosperarono perché soggiogarono l’Asia, così come oggi l’influenza degli Stati uniti dipende dalla sua presenza in Asia».
Proprio questa commistione tra storia occidentale e asiatica e la rilevanza di quest’ultima per comprendere quanto accaduto nel «nostro» mondo è al centro dell’immenso lavoro di Pierre Grosser ne Dall’Asia al mondo, un’altra visione del XX secolo (Einaudi, pp. 656, euro 36, traduzione di Valeria Zini) nel quale l’autore ricorda il ruolo decisivo, perché sconosciuto, del continente asiatico dal 1900 a oggi.
Grosser compie un lavoro enorme, provando a rileggere la storia dell’ultimo secolo attraverso le interazioni tra Asia e Occidente, creando continui rimandi per comprendere la «ri-emergenza» odierna dell’Asia. Del resto il Vietnam, la guerra fredda stessa, si sono sempre giocati su sottili equilibri geopolitici che trovavano in Asia un loro punto di estrema tensione. Ma la storia dell’Asia – come sottolinea Grosser – è fatta di tantissimi elementi, storie e tragedie non sempre analizzate e conosciute. In soccorso, proprio nello sforzo di recuperare brandelli di storia omessa, è arrivato nelle librerie Corea, la guerra dimenticata (Il Mulino, pp. 392, euro 25) di Gastone Breccia. Quello coreano è stato uno dei conflitti più sconosciuti in Occidente e costituisce la vera «tragedia» ancora oggi viva nella memoria dei coreani. Un conflitto con scontri di artiglieria e bombardamenti immani da parte degli Stati uniti su cui la storiografia occidentale per molto tempo ha fatto cadere un velo di silenzio: ma senza la consapevolezza del senso di «tragedia» di quel conflitto è impossibile comprendere quanto sta accadendo oggi tra le due Coree, l’odio del Nord nei confronti degli americani e la difficoltà anche da parte del Sud di accettare in silenzio la presenza militare americana.
E sui conflitti futuri, infine, da segnalare senza dubbio il recente Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide? di Graham Allison (Fazi editore, pp. 518, euro 25, traduzione di Michele Zurlo) nel quale l’autore si chiede in che modo Cina e Usa possano evitare di conclamare questo passaggio di consegne tra Occidente e Oriente, senza per forza arrivare a un conflitto armato dagli esiti devastanti. E nell’analisi dell’attuale situazione, Allison utilizza una frase di un grande protagonista del Novecento asiatico, ovvero il padre-padrone nonché «inventore» dell’idea stessa di Singapore, Lee Kuan Yew: secondo Lee l’ingresso della Cina sull’arena geopolitica mondiale «costringe il mondo a un nuovo bilanciamento. Non è possibile fingere che si tratti semplicemente di un altro grande attore. Questo è il più grande attore nella storia del mondo».
SIMONE PIERANNI
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