Perché ti sei licenziato per fare il camigènt?». Anche perché in romagnolo si usa lo stesso termine quando uno fa la fame. Camigènt significa infatti commediante e la domanda era quella che ha fatto a suo tempo la madre a Ivano Marescotti. Non era una domanda così peregrina.
Bisogna infatti sapere che Ivano Marescotti, figlio di un bracciante agricolo che si era schiumato diversi anni tra confino e galera per essere antifascista, veniva da una famiglia modesta e povera. Lui però aveva studiato, liceo artistico, poi architettura, peraltro abbandonata, perché assunto al comune di Ravenna, ufficio urbanistica. E lì ha lavorato. A lungo.
Poi alla bella età di 34 anni la svolta imprevedibile. Un amico che partecipava a uno spettacolo teatrale gli dice se può sostituirlo perché lui non può continuare. Chiunque, dotato di un minimo di buon senso, avrebbe detto di no. Ivano invece obietta solo che lui non ha mai recitato, non sa come fare. Comunque sia è salito sul palcoscenico.
Niente di trascendentale per il pubblico o per i nuovi colleghi. Ma per lui tutto è cambiato. Folgorato. Si è licenziato dal lavoro sicuro, da lì la domanda della madre. Bisogna tenere conto che non solo non aveva mai recitato, ma neppure frequentato una qualche scuola di recitazione. Pura incoscienza.
Sono anni difficili, talvolta non sapeva dove dormire, mica poteva andare da mamma, oltretutto a quell’età. Andato a Roma batte ogni possibile pista: cinema, teatro, televisione. Poi ha incontrato Giorgio Albertazzi che doveva mettere in scena Il genio di Damiano Damiani e Raffaele La Capria. Albertazzi, che deve dirigere lo spettacolo, ha visto in quella faccia la maschera dell’attore. È la svolta.
De Berardinis lo ha scritturato più volte, poi Martone, Cecchi e tanti altri. E dopo qualche anno è arrivato anche il cinema, praticamente debuttando insieme all’esordiente Silvio Soldini in L’aria serena dell’Ovest. Da allora è stato tutto un tirarlo per la giacchetta in tv, a teatro, al cinema, anche hollywoodiano, ma lui è rimasto con i piedi ben saldi per terra, anzi, ancorati alla sua terra: la Romagna.
In rete è possibile gustare un suo monologo in dialetto sull’ottusità dell’esclusione. Il dialetto era diventato la sua passione, va infatti ricordato il suo lavoro di divulgazione dei testi poetici di Raffaello Baldini. Legato tra l’altro a un episodio umanamente devastante. La sera in cui morì il padre di Ivano, lui andò ugualmente in scena con lo spettacolo Zitti tutti di Baldini. Un testo brillante, comico, con il pubblico che rideva mentre lui sul palco piangeva. Davvero.
Situazione molto simile a quella che gli capitò quando perse un figlio di 43 anni e il giorno del funerale rispettò l’impegno dello spettacolo. Nulla a che vedere con «lo spettacolo deve continuare», macché, Ivano prima che attore era uomo, a tutti gli effetti, lui intendeva omaggiare così le persone cui aveva voluto bene. Perché Marescotti non era un pataca, uno stupidotto si direbbe traducendo e semplificando, anche se quel vocabolo gli piaceva al punto da usarlo per alcune attività. Come il recitare Dante, un pataca, o Ariosto sempre in dialetto.
Anche in questo caso l’uso e la passione per il dialetto non c’entra con le derive alla Alberto da Giussano (lui che era stato leghista sbertucciato nel film di Zalone), anzi Marescotti per tradizione di famiglia è sempre stato schierato a sinistra, col Pci, poi anche con la lista Tsipras e, deluso, coi 5stelle.
Ma più che le scelte esplicitamente politiche, contavano le sue scelte personali, sempre pronto a schierarsi dalla parte giusta, una volta questo giornale diceva «dalla parte del torto», perché questo è stato il suo sentire, un sentire che lo ha portato dai set hollywoodiani con jet privato accanto a Anthony Hopkins per andare a Los Angeles, all’accettare le proposte poco remunerative e poco glamour di registi esordienti o di spettacoli che andavano fatti perché era giusto così.
Perché a lui piacevano le persone e la narrazione a proposito della quale diceva che sino ai suoi quattordici anni gli erano state fatte solo sei fotografie, questione di altri tempi e altri soldi, sua figlia (Iliade, per inciso) ne ha invece migliaia, ma quelle sei permettono di creare una storia, una narrazione, una drammaturgia, le migliaia contemporanee rischiano invece di appiattire tutto, sottraendo senso al racconto orale.
Lo scorso anno aveva deciso di ritirarsi, come aveva fatto Jack Nicholson qualche anno prima. Ma era lui stesso a scherzare sul paragone, con quella faccia da teatro, sempre tra risata e lacrima.
ANTONELLO CATACCHIO
foto tratta da Wikimedia Commons