Il primo dato è all’apparenza negativo, ma contiene un punto di forza. Nel 2021, dopo l’anno più difficile della pandemia, i soci dei poco meno di quattromila circoli Arci diffusi sul territorio italiano erano più che dimezzati, il contatore fermo a poco più di 420 mila iscritti. Eppure tutta questa gente ha continuato a sottoscrivere la propria adesione, coi circoli ancora chiusi e le attività ridotte al lumicino.
Queste centinaia di migliaia di persone, insomma, rappresentano uno zoccolo duro non da poco, una base di partenza per affrontare i tempi nuovi. Oggi si chiude il congresso nazionale: dopo quattro giorni di dibattito i 511 delegati regionali eleggono l’organismo nazionale che a sua volta, a stretto giro, nominerà il nuovo presidente.
Il successore di Daniele Lorenzi è Walter Massa, già presidente di Arci Liguria. Ieri, Massa ha pronunciato il suo discorso da semplice delegato, circondato da un’atmosfera di attesa. Ha esordito con un aneddoto che lo vide protagonista insieme all’allora presidente Tom Benetollo, indimenticato traghettatore dell’organizzazione verso l’orizzonte aperto dell’«autonomia del sociale». Si era nel 2003, ai tempi del referendum in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori quando accadde che la Cgil si sfilò dal comitato promotore. Ne seguì un momento di spaesamento al quale proprio Benetollo diede un taglio, con queste parole: «Noi siamo l’Arci, andiamo avanti lo stesso».
Massa sa che il nodo del rapporto con la politica è ineludibile, si dice consapevole che la crisi della rappresentanza riguardi anche l’Arci. «Siamo stati attraversati anche noi dal populismo – scandisce rivolto ai suoi – Dobbiamo rimettere al centro la politica, dare un valore politico alle cose che facciamo». Di mezzo c’è il rapporto con la ri-tessitura delle relazioni sociali in anni caratterizzati dalla crisi pandemica, ambientale ed economica. «Abbiamo riscoperto il mutualismo – racconta Massa – La nostra battaglia è contro la solitudine, in un paese attraversato dalla paura».
Ricorre un concetto che è stato posto al centro dell’azione politica negli scorsi anni dai nuovi movimenti femministi: la cura. «Possiamo essere la cura di questo paese», afferma. Il quale però poi rappresenta il ribaltamento delle condizioni in cui l’Arci si ritrova ad agire ormai da qualche anno. «Siamo nati e cresciuti nel Novecento come case del popolo e società di mutuo soccorso – sostiene – Agivamo dove c’era una comunità. Invece ora si tratta di ricostruire le comunità. È un cambio di paradigma straordinario. Non si tratta di garantire la socialità, bensì di costruirla».
Da qui si arriva a due passaggi decisivi. Il primo è il rapporto con i partiti della sinistra. «I nostri leader a volte mi imbarazzano – afferma Massa – Ma ciò non mi fa pensare che non siano nostri interlocutori: dobbiamo essere noi a spiegare loro come si cura questo paese». Il secondo è il tema del Terzo settore, investito da una legge di riordino che, si afferma nel documento programmatico congressuale, «riconosce solo in parte il nostro modello associativo, dunque rischia di compromettere seriamente la tenuta della nostra rete».
Tuttavia, sostiene ancora il documento, l’Arci non ha nessuna intenzione di «scivolare verso un ruolo di mera erogazione di servizi». «L’Arci non è un’associazione di operatori sociali – sintetizza ancora Massa – È composta da cittadine e cittadini che si auto-organizzano, per questo non possiamo accettare lo smantellamento dei servizi pubblici». Torna in mente l’idea di sindacato territoriale lanciata da Maurizio Landini in apertura di questo congresso. «Territorio» è in effetti una delle parole più ripetute. Anche se, come precisa Luciana Castellina, l’idea di territorio dell’Arci ha poco a che vedere con i comunitarismi chiusi. «È un territorio aperto alle questioni globali – dice Castellina – dal Kurdistan all’emergenza climatica».
Pochi minuti dopo, dal tavolo della presidenza viene espressa «vicinanza» al corteo dei sindacati di base che passa di fronte all’Auditorium Antonianum.
GIULIANO SANTORO
Foto di Franco Zunino