Dopo un anno e mezzo di silenzio obbligato da un isolamento totale, dall’isola-prigione di Imrali il leader del Pkk Abdullah Ocalan è riuscito a mandare un nuovo messaggio.
Lo ha fatto tramite il fratello Mehmet, autorizzato a fargli visita per la prima volta dall’aprile 2015: riprendere il processo di pace con la Turchia.
Questo in sintesi l’appello di Apo, non al suo popolo che da anni è pronto al dialogo, ma allo Stato turco che, dopo aver assistito all’abbandono delle armi da parte del Pkk e il ritiro sulle montagne irachene di Qandil, ha lanciato una campagna militare e di aggressione politica e sociale che ricorda gli anni terribili della guerra civile.
«Non siamo stati noi ad aver distrutto il processo [di pace]. La questione kurda è complessa, non una faccenda di 20 anni, ma di 150, 200. Trenta persone muoiono ogni giorno. Se lo Stato fosse stato sincero, non ci sarebbero così tante vittime. Questo paese non merita tutto questo».
Un guerra cieca, la definisce il leader prigioniero, a cui si può porre fine con il negoziato: «Se lo Stato darà un segno di pace, questo problema non esisterà più. Possiamo risolvere questo problema in sei mesi. Interrompete il bagno di sangue e le lacrime».
Ad Ankara, però, non ci sono orecchie pronte ad ascoltare. Gli ultimi giorni hanno visto un’escalation della violenza politica e sociale con oltre 11mila insegnanti licenziati per presunti legami con il Pkk e 28 comuni commissariati. Senza dimenticare le operazioni militari attive dal luglio del 2015.
Una violenza così brutale che ieri a Ginevra l’Alto Commissario Onu per i diritti umani ha chiesto alla Turchia di permettere l’ingresso di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni compiute nel sud est del paese. Zeid Ra’ad al-Hussein ha accusato Ankara di crimini gravi, «uccisioni di civili, omicidi extragiudiziali, trasferimenti forzati su larga scala, villaggi e città rasi al suolo».
Il presidente turco Erdogan, però, non intende fermarsi, conscio che questa potrebbe essere l’occasione per indebolire definitivamente il movimento kurdo. Lo fa nel sud est turco come nel nord di Siria e Iraq. Lì bombarda e invade, in casa usa il nuovo e funzionale strumento dello stato di emergenza, dichiarato dopo il fallito golpe ma ampiamente usato contro la comunità kurda.
L’obiettivo è chiaro: annullare le ambizioni democratiche kurde, diventate concrete con le vittorie elettorali del partito di sinistra Hdp, oggi sotto pesante attacco governativo. Così l’approccio applicato al cosiddetto Stato parallelo dell’imam Gülen viene copiato e incollato in Kurdistan. Con lo stesso scopo: l’eliminazione definitiva del Pkk e dei suoi ausiliari, come le Ypg e le Ypj in Siria, ma anche i riferimenti politici, l’Hdp.
A chiedere la fine della campagna militare contro il popolo kurdo da parte di Ankara e la liberazione di Ocalan, sarà una mobilitazione nazionale indetta da Rete Kurdistan Italia e l’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia il 24 settembre prossimo. Appuntamento alle 14 a Porta Pia, a Roma.
CHIARA CRUCIATI
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