L’antica saggezza orientale prescrive di fare attenzione ai propri desideri perché potrebbero realizzarsi. E il risultato non sarebbe quello aspettato. Dovrebbero ricordarsene, in Italia, i sostenitori del presidenzialismo come soluzione di tutti i mali perché l’esempio francese sta lì, diviso dal nostro Patrio Suolo soltanto dal tunnel del Monte Bianco. E non è un bello spettacolo.
Il presidenzialismo voluto dal generale De Gaulle nel 1958 ha creato quella che gli studiosi di scienza politica chiamano «monarchia repubblicana» perché, in fin dei conti, tutto fa capo al presidente. Non solo la politica estera e quella militare ma sostanzialmente ogni scelta importante, dalle sovvenzioni agli agricoltori fino ai concorsi per le grandi opere pubbliche come la nuova sede della Bibliothèque Nationale voluta a suo tempo da François Mitterrand.
Il primo ministro fa da capo di gabinetto, risolutore dei problemi e all’occorrenza parafulmine per scaricare su qualcuno le colpe del presidente. Un assetto non molto diverso da quello che esisteva esattamente 200 anni fa con Luigi XV quando il duca d’Orléans, il principe di Condé e il cardinale de Fleury cercarono, a turno, di far funzionare la macchina dello stato tra il 1723 e il 1743 (poi il re decise di fare da solo).
In realtà la costituzione della Quinta Repubblica sarebbe più democratica di quanto appare: per esempio la carta non dà al presidente il potere di licenziare il primo ministro a suo piacimento. L’interpretazione che di fatto si è affermata in questi 65 anni è che il presidente sceglie il «suo» capo del governo e, quando non è soddisfatto, gli chiede di dimettersi, cosa che avviene sull’istante.
Nel caso di Macron, che incarna una versione particolarmente violenta del neoliberismo autoritario dei nostri tempi, questo è particolarmente evidente. Elisabeth Borne ha le settimane contate.
Giorgia Meloni, che guarda all’elezione diretta del presidente della repubblica come al coronamento del successo del suo progetto politico, dovrebbe forse riflettere sul ciclo rivoluzionario iniziato in Francia sei anni fa, precisamente con l’elezione di Emmanuel Macron, presentato all’epoca come il salvatore delle istituzioni democratiche dal pericolo fascistoide di Marine Le Pen.
Perché non c’è dubbio che si è trattato di un ciclo rivoluzionario, iniziato con la mobilitazione contro le leggi sul Lavoro nel 2016, proseguito dai gilet gialli nel novembre 2018, sospeso dall’epidemia di Covid-19, ripreso con le gigantesche manifestazioni contro l’aumento dell’età pensionabile nelle scorse settimane e proseguito nei giorni scorsi con i violenti scontri dopo l’assassinio del giovane Nahel a Nanterre.
Da sette anni la Francia è in rivolta contro le proprie élite al potere e la capacità dei suoi movimenti sociali di durare nonostante una repressione sempre più violenta è quasi incredibile, se guardata dalla sonnolenta Italia. Sì, perché Macron è al potere e rimane al potere solo grazie alla sua polizia, che nel 2018 ha storpiato e mutilato qualche decina di gilet gialli, come in queste ore picchia, lancia lacrimogeni e mette in campo i mezzi blindati per far fronte a una giusta ribellione dei giovani.
Dal 2017 in poi sono stati centinaia i casi di cittadini uccisi o gravemente feriti da una polizia che è tornata ai metodi del prefetto Papon, prima servitore degli occupanti tedeschi e poi architetto della repressione contro i sostenitori dell’indipendenza algerina: il massacro del metrò Charonne nel 1961 non è stato dimenticato.
Concentrazione dei poteri, manipolazione dell’informazione, indebolimento della magistratura e ricorso facile alla polizia sono la lista dei desideri di questo governo. Gli effetti della sua possibile realizzazione potrebbero però essere amare sorprese.
FABRIZIO TONELLO
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