È passato un anno da quando grazie a un manifesto della Flai Cgil si cominciò a parlare di una regolarizzazione per i lavoratori stranieri occupati in agricoltura e privi di permesso di soggiorno. E ancor prima dell’iniziativa sindacale c’erano state richieste da parte di grandi e piccoli imprenditori agricoli che – vedendo approssimarsi mesi di intensa domanda di lavoro per le semine e altre operazioni primaverili e per le raccolte estive – si erano resi conto che la manodopera disponibile era drasticamente ridotta rispetto agli anni precedenti.
Ma a queste probabili assenze corrispondeva una sicura presenza di immigrati privi di permesso di soggiorno oppure con permesso scaduto comunque in condizione di irregolarità : persone intrappolate in Italia e a rischio di rimpatrio forzato. Attingere ulteriormente in maniera legale a questo bacino era l’interesse dichiarato e in larga misura effettivo di molti imprenditori agricoli. Risultava dunque evidente che la sanatoria ( o regolarizzazione che dir si voglia) era una buona opportunità non solo per i lavoratori.
E a questo punto l’interesse per la regolarizzazione si estese riguardando lavoratori e datori di lavoro di vari settori ed ambienti. In particolare il lavoro domestico e quello di cura (colf e badanti). Alla fine la regolarizzazione fu approvata rientrando come parte integrante del ‘Decreto Rilancio’ del 16 maggio 2020 tuttavia con una serie di paletti e di vincoli volti a renderne il percorso difficile e costoso per tutti e praticamente impraticabile per i braccianti.
Le domande furono poco più di duecento mila per il complesso delle categorie ma quelle dei lavoratori agricoli furono circa quindicimila: una cifra veramente irrisoria se si considera il notevole e crescente numero di lavoratori stranieri occupati al nero.
E questo merita una spiegazione specifica che chiama in causa il meccanismo cardine delle regolarizzazioni in atto nel nostro paese: un procedimento secondo il quale l’immigrato non è un soggetto che richiede di regolarizzare la propria posizione e ottenere un permesso di soggiorno. Al contrario egli è l’oggetto di una richiesta presentata da un datore di lavoro che decide di regolarizzare una persona alle proprie dipendenze.
Con la legge Bossi-Fini e relativa sanatoria questo principio fu codificato con l’infame norma del ‘contratto di soggiorno’, che lega il permesso a uno specifico rapporto di lavoro rendendo strutturalmente insicura la condizione del lavoratore ‘oggetto’ del contratto sempre a rischio di perdere il permesso di soggiorno.
Ma la maggior parte dei braccianti che lavorano ora al nero non hanno un rapporto di lavoro certificabile. In agricoltura la domanda di lavoro è estremamente irregolare con concentrazione in alcuni periodi e con la durata dell’occupazione presso un’azienda spesso molto breve. A volte il bracciante conosce solo il caporale e non ha alcun contatto con il titolare dell’azienda agricola. Ed è comprensibile la scarsa disponibilità di questi ultimi. Ma anche nel caso di disponibilità i requisiti personali dell’imprenditore e relativi all’azienda richiesti per dar corso alla regolarizzazione sono talmente stretti da disincentivare ogni buon proposito.
Per questo i braccianti la battaglia l’hanno persa ancora prima di cominciarla. Chi non voleva che se ne facesse nulla ha vinto la partita in anticipo. E i lavoratori si sono trovati nelle stesse condizioni di prima aggravate dall’epidemia.
Questo è l’aspetto più doloroso. La costrizione a restare chiusi in casa – il lockdown come si dice – è una gran bella seccatura, che rende la vita difficile a chiunque. Ma questa è una seccatura per chi una casa dove stare ce l’ha. Il che non è il caso di una larga parte dei lavoratori agricoli immigrati.
Un alloggio di fortuna per quanto terribile è più sopportabile se usato solo per riposarsi di notte. I ghetti, le baraccopoli, e le stesse tendopoli sono forme di degrado abitativo comunque. Ma diventano una insopportabile prigione quando non se ne può uscire. Uscire dalle precarie sistemazioni nei ghetti e altrove per gli irregolari non implica solo una contravvenzione alle norme del lockdown ma anche il rischio delle sanzioni per l’assenza di permesso di soggiorno.
Inoltre le agglomerazioni, anche le più precarie e malsane, sono comunque un luogo di socialità e solidarietà. La giusta paura del contagio ha determinato un’ulteriore dispersione degli immigrati, costretti a cercarsi nel freddo nei mesi autunnali e dell’inverno un tetto un tugurio o una casa di campagna abbandonata per ridurre il rischio di contagio.
Lo stesso accesso al tampone è stato difficile e in alcune situazioni del Mezzogiorno è stato reso possibile dall’impegno di associazioni del volontariato. Infine in qualche caso si è dovuto rinunciare a progetti di sistemazione in strutture più o meno attrezzate di numeri significativi di braccianti per i rischi connessi all’affollamento, con il risultato di un ulteriore aumento della loro solitudine e precarietà. Insomma è stato un anno, e soprattutto un inverno, orribile.
ENRICO PUGLIESE
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