Lo scontro è servito. Gli attacchi arrivati dalle «fonti di palazzo Chigi», dalle veline del ministero della Giustizia e dalle dichiarazioni di svariati esponenti della maggioranza di governo hanno portato l’Anm a rispondere con parole piuttosto dure, segnando così il primo vero e proprio spartiacque di un conflitto sin qui latente e che, con ogni probabilità, Giorgia Meloni avrebbe volentieri evitato se nell’ultima settimana i casi Santanchè, Delmastro e La Russa non le fossero praticamente esplosi tra le mani.

Così, all’accusa di «fare opposizione» e di voler «sabotare la riforma della giustizia» per primo ha risposto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia nella sua relazione davanti al comitato direttivo centrale cominciato ieri a Roma. «Un attacco pesantissimo – ha detto Santalucia – e ancora più insidioso perché lasciato a fonti anonime di Palazzo Chigi.

Avremmo gradito una smentita e invece ieri (venerdì, ndr) abbiamo letto due note di fonti ministeriali che intervengono sugli stessi fatti». Il riferimento è agli spifferi che parlano di revisioni in vista per la pubblicazione di avvisi di garanzia sui giornali e dell’imputazione coatta dei giudici contro il parere dei pm, ovvero le questioni su cui sono inciampati prima Santanchè e poi Delmastro.

«Il sospetto – ha proseguito il presidente dell’Anm – è che queste proposte vengano sbandierate non perché si crede che servano a migliorare l’attuale sistema ma come misura di punizione nei confronti della magistratura».

Da qui, «con umiltà», la richiesta di Santalucia al governo di «cambiare passo» perché «non si può andare a una riforma costituzionale con questo passo, come risposta reattiva a un provvedimento fisiologico di un giudice che non piace perché colpisce qualcuno che è al governo».

L’Anm, in seguito, ha sottoscritto l’intervento del suo presidente con un documento che ha ribadito ancora una volta la linea, soprattutto per quel che riguarda il caso Delmastro e la sua imputazione coatta decisa dalla gip di Roma: «Le prese di posizione, che si susseguono in questi giorni censurando i provvedimenti di un giudice, sono incomprensibili, specie laddove provengano da chi propone, nello stesso tempo, di affidare a tre giudici invece che a uno la valutazione delle richieste di misure cautelari. Quando invece la richiesta del pubblico ministero va nella direzione auspicata, allora il giudice non serve più. Prima si auspica la separazione delle carriere perché i giudici sarebbero subalterni ai pubblici ministeri, poi si insorge quando un giudice si discosta dalle loro richieste».

In un secondo documento, sempre approvato dal comitato direttivo centrale dell’Anm, si difende il diritto dei magistrati a entrare nel dibattito sulla riforma della giustizia. «Intervenire nel dibattito che, fisiologicamente, precede e accompagna ogni proposta di riforma legislativa capace di incidere proprio sui diritti e sulle libertà è un dovere dell’Associazione Nazionale Magistrati – si legge -. Lungi dall’essere un’interferenza, è la pretesa di essere ascoltati perché portatori di conoscenze ed esperienze proprie del nostro ruolo».

Non si può andare a una riforma costituzionale come risposta reattiva a un provvedimento di un giudice che non piace perché colpisce qualcuno che è al governo

Le critiche nello specifico riguardano l’abolizione del reato di abuso d’ufficio («In contrasto con l’indirizzo politico perseguito a livello internazionale, consistente nel potenziamento degli strumenti di prevenzione e repressione della corruzione ed espongono l’Italia al rischio di procedure d’infrazione»), l’abolizione del reato di traffico di influenze illecite («Finirebbe con il rendere leciti comportamenti pericolosi per la formazione delle decisioni della pubblica amministrazione, suscettibili di inquinare il processo decisionale e la comparazione degli interessi attinti dall’esercizio del potere pubblico») e la limitazione del potere d’appello dei pm: «Anche alla luce dell’ampliamento delle ipotesi di giudizio a citazione diretta previsto dalla riforma Cartabia, data l’ampiezza del divieto di impugnazione rischia di entrare in frizione con i principi scolpiti nella sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007, che già si pronunciò sulla precedente legge Pecorella, sostanzialmente nel medesimo senso».

MARIO DI VITO

da il manifesto.it

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