L’America nella trappola della predestinazione trumpiana

Thomas Matthew Crooks, una pallottola che fischia nell’aria, Donald Trump che si accascia al suolo proteggendo con le mani l’orecchio colpito dal giovane tiratore ventenne. Sangue, rabbia. Gran parte...

Thomas Matthew Crooks, una pallottola che fischia nell’aria, Donald Trump che si accascia al suolo proteggendo con le mani l’orecchio colpito dal giovane tiratore ventenne. Sangue, rabbia. Gran parte dei giornali e delle televisioni, delle radio e dei siti Internet hanno sentenziato senza appello: quelle immagini resteranno nella Storia.

Ed è vero. Diversamente dall’attentato a Kennedy, più similmente a quello contro Reagan negli anni Ottanta, nel mezzo di una contesa nucleare incerta e allarmante.

Donald Trump si è salvato per la rotazione minima della sua testa, nel momento in cui ha distolto lo sguardo e l’ha fissato altrove, seppure di pochi gradi. Dicono gli esperti che era sufficiente un centimetro per far cambiare corso alla Storia degli Stati Uniti d’America e del mondo. Ma, centimetro o no, la Storia è comunque già cambiata. Perché ha regalato al magnate autoritario, complottista e iperconservatore una seconda giovinezza politica.

Se fosse morto, è probabile che oggi staremmo commentando una valanga di episodi in stile “guerra civile” proprio internamente alla Repubblica stellata; tenuto conto del fatto che il movimento del MAGA (“Make America Great Again“) senza lui sarebbe rimasto veramente orfano e privo di qualunque punto di riferimento.

Senza l’annuncio, avvenuto poco prima della Convention repubblicana a Milwaukee, della nomina del suo futuro vicepresidente James David Vance, un quasi quarantenne originario della classe media dell’ovest, di provenienza quindi quasi proletaria rispetto alla “first class“, l’elettorato repubblicano sarebbe piombato in uno stato di confusione prima di tutto mentale.

Oggi, scampato per un centimetro alla pallottola di Crooks, Trump ha tutta l’autorevolezza del martire che ottiene un rispetto molto più alto di un presidente in carica balbettante, afflitto da una incipiente demenza senile. Di riflesso, ma nemmeno tanto, l’impressione che si ha qui – figuriamoci entro gli Stati Uniti – è quella di un pars democratica smarrita e indecisa, mentre la pars repubblicana incorona oggi il tycoon per la seconda volta come leader supremo.

Sta nella natura stessa dei grandi attentati falliti l’essere seguiti dalla dichiarazione di protezione divina. Lo fecero innumerevoli sovrani, tiranni di ogni tempo: per ultimo, tra questi, Adolf Hitler. Non nuovo a queste esperienze, tuttavia il 20 luglio 1944 il cancelliere e presidente tedesco se la vide davvero brutta a Rastenburg nel suo quartier generale. La congiura dei generali e l'”Operazione Valchiria” erano arrivate ad un passo dall’ottenere per la Germania la fine del regime criminale nazista.

Il Führer proclamò la sera stessa alla Germania intera che nell’essere scampato al pericolo vedeva chiaramente un segno del destino: quello omicidiario di continuare l’opera di annientamento delle popolazioni considerate “inferiori“, la guerra mondiale, il tentativo di dominio totale del pianeta da parte della “razza ariana“.

Ronald Reagan, ferito quasi mortalmente da una pallottola che gli arrivò ad un centimetro dal cuore, ristabilitosi, parlò alle americane e agli americano affermando che quella salvezza in extremis era un segno: lui era il predestinato alla risoluzione della minaccia atomica globale.

Trump, oggettivamente ferito più lievemente, sfidando comunque il pericolo di un secondo colpo, ha alzato il pugno al cielo e ha incitato la folla a “combattere“. Per un attimo l’eco di Capitol Hill si è sentito nemmeno tanto in lontananza: mai e poi mai, del resto, ha preso le distanze o condannato gli eventi che lui stesso aveva ispirato, l’assalto al Congresso da parte di una folla di facinorosi che aveva tutti i tratti dell’eversione antidemocratica.

Allo stesso modo, The Donald non ha mai fatto marcia indietro sull’affermazione riguardante il non riconoscimento della vittoria di Biden. Questi presupposti restano in un solco di continuità che, oggi, dopo quattro anni di fallimenti democratici sul piano sociale e sulla politica estera, appare come un viatico di coerenza su cui si è avviato un Partito repubblicano in cui gli avversari del magnate si sono disgregati nella corsa alle primarie per la presidenza.

Trump può affermare di non avere praticamente avversari nella sua corsa per il ritorno nello studio ovale. Certamente non ne ha internamente al suo partito. Se i democratici non si sbrigheranno a cambiare candidato, è praticamente quasi certo che, soprattutto dopo l’attentato al comizio in Pennsylvania, i fianchi delle opposizioni si sono indeboliti e la figura dell’uomo predestinato a salvare l’America è oggi la carta più spendibile nella formulazione di una nuova accettazione di massa nei suoi confronti.

I democratici, logorati dalle fazioni interne e dalla mancanza di risultati da parte della Casa Bianca, hanno indubbiamente il consenso di una metà della popolazione votante, non fosse altro in quanto voto contrario alla seconda ascesa trumpiana alla carica più alta della repubblica federale, ma rischia di essere un voto molto disomogeneo, per niente legato da una visione programmatica che metta insieme diritti sociali e diritti civili, ambiente e pace.

Se Trump fosse rimasto immobile nell’attimo dello sparo di Crooks, il proiettile lo avrebbe colpito alla base del cranio e, quindi, ucciso sul colpo. Ma, siccome la Storia, non si fa con i se e con i ma, i democratici oggi hanno un problema ulteriore: quello di una controparte che, fino a novembre, in tutti i comizi mostrerà le ferite del colpo ricevuto, veicolando il tutto empaticamente e lanciando il messaggio che, anche se attaccati e atterrati, ci si può rialzare subito e lottare.

Non c’è che dire, la potenza iconica delle immagini e delle frasi di Trump soverchia il balbettio bideniano almeno di dieci a uno. Tuttavia, per noi che osserviamo tutti questi accadimenti da molto lontano, ma comunque da occidente, la descrizione dell’America di oggi è quella di due uomini ottuagenari che si confrontano sui destini di un Grande paese che, a dire il vero, non sembra più l’emblema della democrazia per il mondo intero.

Tanto ammiratori quanto detrattori al pari di noi, gli Stati Uniti appaiono in affanno sia sul terreno economico, sia su quello militare, immersi in un multipolarismo competitivo che impedisce loro di emergere come guida del nuovo millennio per i popoli cui viene sbattuta in faccia una fisionomia sempre più aggressiva del capitalismo liberista.

L’amministrazione Trump, esattamente nel 2017, operò – del resto – proprio sul piano della fiscalità una riforma che fu un grande regalo alle industrie e agli enormi gruppi affaristici. Tra questi le Koch Industries.

Tanto con Trump quanto con Biden, la politica americana è stata indirizzata da un ristrettissimo numero di grandi famiglie di straricchi e dalle concentrazioni bancarie e finanziarie. L’economia di guerra, da almeno due anni a questa parte, ha fatto poi il suo cinico gioco e ha indotto al dirottamento delle risorse pubbliche dalle esigenze sociali alle spese militari.

La configurazione del potere economico che influenza la sovrastruttura politica è una oggettività che nemmeno i più accesi difensori del liberismo intendono smentire. Biden sostiene che Trump e Vance sono amici dei ricchi. Indubbiamente. Ma i democratici possono essere definiti “amici dei poveri” o “del popolo“? A questa domanda, la risposta più politicamente onesta è un secco e deciso: NO.

Tuttavia, la minaccia trumpiana incombe su una democrazia formale (sempre più formale) che domani potrebbe perdere anche questo suo residuo carattere e diventare uno Stato autocratico, seppure con pesi e contrappesi costituzionali “formalmente” rispettati.

Questa è l’unica ragione che induce molti elettori della classe media e del proletariato americano a schierarsi, turandosi il naso, per un Biden che non convince e che, quindi, ha davvero poche chance di vincere. L’ondata autoritaria che si è diffusa nel mondo con l’avvento del sovranismo e delle diverse declinazioni oligarchiche che ha fatto registrare, non ha esaurito la sua spinta propulsiva.

Pianificazione e controllo economico sono, grazie alle moderne tecnologie, un chiarissimo grimaldello per l’indirizzamento delle opinioni pubbliche. Chi è meno schierato dalla parte sociale finisce, così, con l’essere percepito come il campione della libertà dei lavoratori dal bisogno, della redistribuzione delle ricchezze: soprattutto se, accanto all’icona del capitalista a tutto tondo, si staglia quella del giovane esponente di una classe medio-bassa che, così, riesuma il “sogno americano“.

Non c’è che dire: da parte repubblicana tutto è pronto per l’attacco elettorale, mentre nel campo opposto ci si mette su posizioni difensive, riconoscendo nei fatti una debolezza che, invece, si vuole – da parte di Biden e della sua famiglia – negare con una oggettività cui nessuno è disposto a credere.

Thomas Matthew Crooks aveva appena vent’anni ed entrerà nella Storia, come Oswald e altri celebri attentatori. Era un repubblicano, almeno stando alle notizie che si hanno fino ad ora. Possedeva un fucile AR-17. Uno dei milioni di fucili che sono presenti nelle case delle americane e degli americani: su una popolazione di circa trecentocinquanta milioni di abitanti, si calcola che negli USA ci siano in circolazione oltre quattrocento milioni di armi. Anche questo dato deve far riflettere.

Se Trump fosse stato ucciso, la guerra civile cui si faceva cenno non sarebbe stata un fantasma da evocare in segno di scongiuro, ma una seria minaccia e avrebbe avuto ripercussioni sulla politica globale di Washington. Per cui, la sopravvivenza di Trump, se da un lato evita uno scenario di tensioni permanenti e di disordini su vasta scala, dall’altro lato non è la rassicurazione che i combattimenti non avvengano. Differentemente rispetto ad un clima di conflitto interno, certo, ma con pericolose somiglianze.

Se i proclami in campagna elettorale saranno nuovamente bellicosi e derideranno gli avversari, chiunque si sentirà in dovere di emulare il grande capo, martire consolidato della causa a stelle e strisce. Il clima di violenza congenito all’affermazione del potere, o meglio di “un potere” sugli altri (quello presidenziale in una repubblica già presidenziale), non prende spunto dagli avvenimenti della Pennsylvania.

L’assalto a Capitol Hill, da questo punto di vista, è stato molto più grave se si considera che comportamenti di massa come quello dell’attacco ad un parlamento sono riscontrabili in due occasioni storicamente determinate: un tentativo di colpo di Stato o una rivoluzione. Non si trattò di una forzatura, di un tentativo di condizionare gli eventi e basta. Fu un gesto eversivo, sospinto dalla verve oratoria di Trump che incitò alla ribellione contro i poteri costituzionali.

I democratici hanno avuto l’occasione di farla la Storia, dal loro punto di vista: quello di una tutela delle ragioni dei ceti medi, della difesa dei diritti tanto civili quanto sociali. Ma hanno clamorosamente abdicato a questo ruolo divenendo gli interpreti di un modello liberista e neoatlantista che è stato ereditato da Trump e, in parte, dalle precedenti presidenze.

È questo che manca alla politica americana: un partito sociale, un partito che sia in grado, schierandosi con le lavoratrici e i lavoratori, di rappresentare la massa dei moderni proletari e del ceto medio che sarebbero pronti ad unirsi sulla base di un orizzonte non solo vincolato alle esigenze belliche e alla ristabilizzazione di un primato mondiale americano.

La retorica conservatrice e oscurantista di Trump e Vance avrebbe il suo da fare se a parlare fossero davvero dei leader che intendono tutelare il mondo del lavoro prima di quello delle imprese. Gli inciampi presidenziali sono soprattutto questi. Senza un mutamento radicale in corsa, la Casa Bianca vede già l’ombra di Trump stagliarsi sulle mura dello studio ovale.

MARCO SFERINI

16 luglio 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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