Il palco della Buchmesse di Francoforte ben si presta a esibizioni retoriche e autocelebrazioni e, finalmente, la destra italiana al governo del paese ospite di quest’anno si è potuta godere l’agognata tribuna. E forse placare così quella vera e propria ossessione che da anni l’assilla: strappare alla sinistra l’«egemonia culturale» che da tempo immemorabile la eserciterebbe, costringendo il pensiero, i valori e le espressioni della destra in una condizione di indigente marginalità.
Tanto forte è stata questa ossessione da sospingere gli esponenti della destra politica piazzati in un modo o nell’altro al vertice delle istituzioni culturali a prodursi in un faticoso latinorum o in inutili sproloqui e strampalate genealogie a sostegno delle proprie convinzioni, per dimostrare una levatura intellettuale che, del resto, nessuno aveva loro richiesto.
Fatica inutile e frutto di un paradosso che sarebbe piuttosto evidente se solo si volesse vedere che quell’«egemonia culturale» cui confusamente ci si riferisce nel dibattito pubblico significa poco più che una questione di poltrone e poteri amministrativi. Se guardiamo invece alle cose che contano, quelle che incidono sui caratteri di una società, se ci riferiamo a ciò che il linguaggio dotto chiamava una «temperie», scopriremmo che la destra, e non solo quella italiana, detiene l’egemonia culturale da più di un quarantennio e che la sinistra, convinta del suo primato intellettuale, versa da altrettanto tempo in una condizione di beata e inconsapevole subalternità.
Per quanto riguarda l’Italia, almeno da quando un amore ha cominciato a chiamarsi «investimento affettivo» e il patrimonio storico-artistico del paese un «giacimento culturale» da cui estrarre barili di turistica valuta pregiata. All’avanzare di questa egemonia che potremmo azzardarci a definire più che culturale «antropologica» la sinistra non fu in grado di opporre nulla, come un topo ipnotizzato dal serpente. Ma i suoi esponenti più radicali e avveduti le seppero dare almeno un nome: «controrivoluzione neoliberale«.
Non si trattava solo di una dottrina economica, sia pure dogmatica e totalizzante, ma, come la battezzarono in seguito i marxisti Dardot e Lavalle, di «una nuova ragione del mondo». Di una filosofia, di una rilettura della storia, di una visione dell’ordine sociale e delle sue linee di sviluppo che invadeva accademie e università, centri di ricerca e istituzioni culturali, reclutando in quantità i suoi teorici e i suoi divulgatori.
Gerarchia, diseguaglianza, competitività, individualismo proprietario si imponevano come principi dominanti e valori positivi, modelli cui conformare comportamenti individuali e collettivi. Se «egemonia culturale» significa qualcosa, allora è di questo che si tratta. Ma mentre la destra più ideologica restava ottusamente inconsapevole della posizione di vantaggio acquisita, la sinistra si illudeva che una pattuglia discretamente folta di intellettuali capaci di analisi critiche, di scrittura efficace e di firmare appelli, ma ormai estranei a qualsiasi dimensione di conflittualità sociale, fosse sufficiente a garantirle un primato nel mondo dello spirito oltre che in quello della politica, per non parlare della superiorità morale.
E ancora oggi, quarant’anni dopo la sua débâcle culturale, si accontenta di deridere sgrammaticature e narcisismi intellettuali dei nuovi burocrati della destra invece di preoccuparsi della ruggine che corrode i suoi strumenti analitici.
Se vi è un terreno sul quale misurare con precisione la resa incondizionata del pensiero di sinistra, o meglio la rotta di collisione imboccata contro ogni aspirazione di libertà e autogoverno della cultura, questo è quello della scuola e dell’università. Se oggi la pubblica istruzione dominata dalla retorica truffaldina del «merito» subisce un governo da secondini, lo dobbiamo a un lungo percorso di ottuso «utilitarismo» intrapreso dalla sinistra molti anni fa.
Con il pretesto di «avvicinare la scuola alla società» e di vincolare lo studio al lavoro, preludio della famigerata alternanza, si è prodotto un soffocante conformismo e cancellata qualunque eccedenza (e dunque qualità innovativa) rispetto alla presunta domanda del sistema produttivo. Il «liceo del made in Italy», morto di inedia prima di nascere, è l’ultimo mostriciattolo di una genealogia produttivista e nazional-celebrativa, nata con la «Milano da bere», ma poi apprezzata e praticata anche da più recenti centrosinistra.
A tutto questo gli epigoni leghisti non hanno dovuto che aggiungere un tocco di ferocia disciplinare in stile nordcoreano. L’egemonia culturale e l’idiozia meritocratica se le sono trovate già apparecchiate e senza fatica alcuna.
La distruzione dell’Università pubblica come luogo in cui potesse svilupparsi pensiero critico e un lavoro intellettuale libero da precetti ministeriali e interessi privati è stato un altro capolavoro dell’egemonia culturale della sinistra messo a battesimo dagli Zecchino e dai Berlinguer. Non vi è stato in seguito nessun ministro dell’Università e della ricerca che non si sentisse in obbligo di lasciare il proprio segno «razionalizzatore» sulla strada che, riducendo tutto a un calcolo costi-benefici e all’invocazione del ruolo salvifico delle aziende private, ha condotto al discount del tre più due, alla triste contabilità dei crediti e dei debiti e alla proliferazione delle aziende universitarie, telematiche e non.
Tuttavia, alla destra resta un problema che le impedisce di riconoscere l’egemonia di cui quotidianamente si avvale. Se nella sostanza si identifica con la pratica neoliberale e con i suoi strumenti di governance e, ad ogni buon conto non potrebbe fare altro che adeguarvisi, d’altro canto il proprio profilo ideologico le appare troppo sfocato. Ha bisogno, insomma, di condire la pietanza neoliberale che ha nutrito anche parte della sinistra, con valori propri immediatamente riconoscibili. Ed ecco che per distinguersi è costretta a strafare.
È qui che la storia e la cultura vengono tirate per i capelli con risultati grotteschi e la recita in camicia nera produce qualche brivido nel pubblico benpensante. È qui che un’aggiunta di durezza e di cattiveria decisionista si rende necessaria così come l’immancabile giro di vite sui diritti civili e gli spazi di libertà. La sinistra insorge e si indigna, ma meglio farebbe a interrogarsi su come, a tutto questo, ha contribuito a spianare la strada.
MARCO BASCETTA
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