Ci risiamo. La ricorrenza del 10 febbraio – il cosiddetto “Giorno del ricordo”, istituito con legge “bipartisan” Berlusconi imperante (l. n. 92 del 3 marzo 2004) – eccita gli animi, in modo ogni anno più parossistico: è il primo paradossale risultato di quella legge sciagurata, che in nome della “pacificazione” e delle “memorie condivise” ha prodotto l’opposto effetto. Com’era ovvio, perché le memorie degli uni non solo non si pareggiano con quelle degli altri, ma, al contrario, emergono con rinnovato sentimento oppositivo. Gli eredi, biologici o politici, dei fascisti occupanti la Jugoslavia negli anni ‘40, autori di stragi inaudite, di devastazioni e vessazioni ai danni della popolazione locale, non sembrano più in cerca di una semplice (e impossibile) autoassoluzione per il loro ruolo di carnefici, ma ormai si propongono, con crescente protervia, nei duplici panni di vittime, e, addirittura, di «eroi». Si vedano gli annunci di iniziative delle associazioni degli esuli istriani e dalmati, o di circoli neofascisti, in cui ricorre accanto o invece del termine «martiri» quello appunto di «eroi»: gli eroi delle foibe.
Ecco, i neofascisti: chiamiamoli come preferiamo, ma qui siamo in presenza di un eccezionale rigurgito di fascismo aggressivamente «nostalgico». Tra la legalità garantita da una Costituzione democratica e l’illegalità di azioni che quella stessa Legge contrasta, i fascisti del terzo millennio, e i loro amici e sodali, stanno cavalcando «le foibe» in un disegno politico-ideologico davanti al quale la cultura democratica e la ricerca storica appaiono in disarmo, capaci al massimo di flebili voci di protesta. Vediamo in campo, da un lato, un esercito agguerrito e all’attacco, e dall’altro un esercito in rotta o in disarmo. Più spazio viene lasciato, a proposito della questione del «Confine orientale», alla destra, meno spazio rimane non per la sinistra, ma per la ricerca della verità e la sua difesa.
E di anno in anno lo squilibrio fra i due eserciti si aggrava, in una sostanziale indifferenza della cosiddetta opinione pubblica democratica. Ora siamo ad un paradosso: la destra, quella più becera e ignorante, nell’ormai antica pretesa di impartire lezioni di metodo storico, ha compiuto un’operazione indubbiamente degna di attenzione: ha sottratto all’arsenale sia della metodologia della storia, sia della cultura democratica, una parola che finora esprimeva una certo concetto, ma ora non più. La parola è «negazionismo». Nei manuali di metodologia della ricerca storica, si indica con questo «ismo» una delle forme estreme del revisionismo in tema di campi di sterminio nazista, quello che precisamente nega se non la loro esistenza, la loro funzione sterminazionista, cercando spiegazioni (risibili) per le camere a gas e i forni crematori: insomma nega il progetto genocidario del lager nazista.
Ora capita che la destra che sta costruendo proprio disegno egemonico, dai tanti aspetti, si sia impadronita della parola, rovesciandone in certo senso il concetto, facendolo trapassare dal campo democratico-antifascista a quello opposto. E con un cortocircuito, facilitato dalla vicinanza tra il 27 gennaio e 10 febbraio e dalla stessa terminologia (Giorno della memoria, Giorno del ricordo), foibe e lager vengono avvicinati, poi sovrapposti e infine confusi, generando una cappa di nuvolaglia graveolente, sotto la quale si agitano i professionisti della «verità politica», che nulla ha a che spartire con la verità storica.
Davide Conti ha parlato su questo giornale di «populismo storico»: la formula è efficace, ma andrebbe corretta in «populismo storiografico», in quanto il chiacchiericcio mediatico, accanto a iniziative di politici e di amministratori, pretende di far scaturire come verità quello che «la gente» anela sentirsi dire, dopo essere stata opportunamente manipolata. E tutto questo con una crescente aggressività che vede presi a bersagli i pochi studiosi autentici del tema, compresi coloro che hanno lavorato in modo discreto cercando di non schierarsi troppo esplicitamente. Interdizioni, minacce, impedimenti opposti a quanti, singoli o associazioni, provano a fare onestamente il proprio lavoro: il populismo storiografico mescola le carte, dà non solo per acquisite, ma per scontate pseudo-verità, e si appella ai sentimenti di un nuovo pseudo-patriottismo, che dovrebbe interpretare in modo «spontaneo» i sentimenti diffusi, il senso comune, il pensiero della gente della strada, divenuta, non si sa in base a quale principio, depositaria delle «verità nascoste» (ovviamente dai comunisti) delle foibe.
E la storiografia, quella vera, arretra, tace, balbetta. Mentre dovrebbe sfoderare tutte le sue armi, e chiamare l’intero mondo intellettuale a propria tutela, e non esitare a pretendere dal ceto politico l’abrogazione di quella legge, generatrice di menzogne e, come stiamo vedendo, di un clima persecutorio.
ANGELO D’ORSI