Per alcuni giorni l’attenzione dei giornali, delle televisioni e di Internet si sposterà, parlando dell’Africa, dalle coste del Mediterraneo al cuore del continente nero: un tempo veniva chiamata la “Françafrique“, quando ancora il colonialismo istituzionale (e non solo quello “formale” odierno) rappresentava bene gli interessi economici di quella borghesia degli Stati nazionali europei che avevano scoperto nuovi orizzonti di sfruttamento di territori e, quindi, di uomini, donne e bambini.
Ciad, Camerun, Centrafrica, Gabon, Congo e Zaire sono state a lungo una sorta di “fortezza europea” nel pieno sviluppo di una regione cruciale per l’intera Africa. Un asse portante di sviluppo tanto economico quanto politico, che ha influenzato le aree circostanti e ha conosciuto enormi contraddizioni negli avvicendamenti alla guida di paesi nati un po’ per caso e un po’ da discendenze secolari da dinastie coloniali che non hanno mai veramente voluto mollare la presa.
La storia di Patrice Lumumba, proprio nella Repubblica Democratica del Congo, è lì a ricordarci che ogni tentativo di indipendenza vera, di pacificazione tra le fazioni e di esclusione concreta e fattiva del colonialismo economico (prima ancora che politico) prevale soltanto se è sostenuta da una vicinanza non tanto alla democrazia, quanto a nuovi fenomeni autoritari, a poteri personali che divengono ereditari (dopo Mobutu, Kabila padre – detestato da Che Guevara – e figlio) e che si fondano su compromissioni affaristiche con multinazionali che continuano a sfruttare la terra e la gente d’Africa.
Sono vittorie anticoloniali del tutto simboliche, perché, ad iniziare dai tentativi di indipendenza dall’occupazione ottomana fino ai primi decenni del Novecento, i popoli africani hanno vissuto in un isolamento mondiale costruito attorno al loro mondo dalle potenze europee per tutta la prima metà del “secolo breve” e per larga parte del periodo post-bellico.
Il brutale assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista congolese Mustapha Malimbo, freddati da un commando di sei guerriglieri non ancora ben identificati, è avvenuto proprio nella regione che è divenuta nel corso dei decenni un nuovo territorio, prima inesplorato, al centro della regione dei grandi laghi, di accaparramento di risorse primarie: minerali come il Coltan (columbite e tantalite), che servono per la produzione delle batterie dei cellulari, sono preziosi tanto quanto il vecchio oro.
Il nuovo colonialismo moderno non guida più questi Stati in forma diretta, ma li eterodirige tramite un vero e proprio imperialismo economico che si diffonde sul continente africano partendo da nuove rotte commerciali. Non è un mistero che la Cina stia gareggiando con il vecchio asse euro-americano nella corsa all’accaparramento di nuovi ambiti di espansione che, curiosamente, obbedendo alle leggi della globalizzazione, non puntano direttamente e solamente alle miniere o alla risorse petrolifere sulla costa dell’Oceano Indiano o ai diamanti del Kasai, ma anche alla costruzione di nuove infrastrutture, di grandi progetti di edilizia per impiantarvi sia le sedi di grandi gruppi di potere sia per creare paradisi turistici dove dirottare ingenti somme di denaro un po’ da tutto il mondo.
Dalla “Françafrique” alla multilateralismo di un continente terribilmente povero, dove l’acqua è un lusso, dove le medicine e la sanità sono un miraggio, dove l’HIV si diffonde a vista d’occhio, dove praticamente nessun paese si è assicurato una minima protezione vaccinale contro il Covid-19. La missione cui stava partecipando il nostro ambasciatore riguardava un programma di sostegno ai villaggi più poveri della zona del Kivu: un programma alimentare della FAO e dell’ONU che da vent’anni sono presenti nell’ex-Zaire, pieni di una frustrazione che deriva dal non riuscire a divenire quella barriera tra i conflitti che i caschi blu dovrebbero invece essere.
La voracità economica fa crescere la voglia di potere e le fazioni si moltiplicano: di gruppi armati, come quello che ha attaccato il convoglio umanitario guidato da Luca Attanasio, solo nella zona al confine con Ruanda e Burundi se ne contano un centinaio. E’ persino impossibile ricordarli tutti: si va dai banditi più spietati che uccidono, rapiscono, stuprano e distruggono interi villaggi solo per predarli fino alla nascita di nuovi gruppi jihadisti che stanno portando lì la parola del Califfato nero del Daesh, imponendo riti e nuove legislazioni che contraddicono le culture originarie.
Si tratta per lo più di paramilitari che si sono autorganizzati dopo le guerre degli anni ’90 e i veri e propri genocidi che si sono susseguiti tra Tutsi e Hutu attorno al lago Kivu dal 1959 in avanti. La fine del potere coloniale belga lasciò allora un vuoto istituzionale, un campo di battaglia aperto in cui si fronteggiarono le etnie contrapposte e iniziarono grandi migrazioni di massa, dal Ruanda verso i paesi limitrofi (Uganda, Tanzania, Burundi stesso e Zaire) durante i massacri del 1993 e poi a seguito del grande genocidio dei Tutsi (1.000.000 di persone, praticamente tre quarti della popolazione) dell’aprile-luglio 1994.
Conflitti in cui i paesi europei non sono rimasti estranei: la Francia ha sostenuto il FAR (le Forze armate dello Stato ruandese) contro il FPR (Fronte patriottico ruandese) e ha continuato a seguire le vicende delle sue ex colonie della “Françafrique” sotto il mandato delle Nazioni Unite. Il tutto mentre quel grande genocidio veniva condotto con una propaganda locale di gruppi estremisti Hutu a sfondo razziale, propagandando l’idea della propria superiorità sui Tutsi considerati dalle pagine della rivista “Kangura” come esseri “biologicamente inferiori“.
Le ferite profonde dell’Africa sono così tante che nessun corpo sano le potrebbe sopportare: se poi si sommano per millenni e si intensificano con il colonialismo e l’imperialismo, che già dal ‘500 letteralmente accerchiavano il continente per nove decimi inesplorato, dove ancora si temevano i “leones” che avevano impedito anche ai romani di penetrare nel cuore delle foreste, oltre il Sahara, ben oltre le cateratte del Nilo, si potrà allora comprendere quanto valga una vita in questa parte del mondo.
Eppure davanti a tanta dimostrazione della brutalità di un capitalismo fagocitatore di ogni diritto elementare, davanti a tanta sete di potere politico ed economico, non può venire meno quella volontà soprattutto sociale, civile ispirata da una morale superiore: quella della solidarietà internazionale, del riconoscimento dell’uguaglianza come unica medicina che possa realmente curare le ferite dell’Africa. Luca Attanasio era un diplomatico, un uomo che ha unito il suo ruolo istituzionale di rappresentanza della Repubblica Italiana a quello di sostenitore di associazioni che promuovevano lo sviluppo delle relazioni tra le diverse etnie di un paese perennemente in guerra.
Oltre ogni credo, fazione, divisa e bandiera. Colpisce molto la foto di questo giovane ambasciatore, ricoverato su un camioncino dei rangers del Parco nazionale di Virunga, dove vive un quarto della popolazione dei gorilla di montagna di tutto il mondo, esanime, come un Cristo del Mantegna, che stringe le mani dei suoi soccorritori. La corsa disperata alla missione umanitaria dell’ONU poco vicina, nell’ospedale indiano, non è servita: una emorragia ha stroncato la vita di una brava persona. Di un uomo per la pace.
Le cronache dei giornali, delle televisioni e di Internet per alcuni giorni parleranno della situazione nella Repubblica Democratica del Congo: qualcuno forse farà uno speciale sulla storia del grande continente nero. Che non sia abbia timore di dire che ciò che è accaduto al nostro ambasciatore, al carabiniere e al loro autista, è avvenuto senza una ragione precisa, che è inspiegabile. Le responsabilità sono nell’oggi e nell’ieri, perché nulla può essere astratto dal contesto in cui avviene; perché solo lì si trovano le cause atroci di effetti che malediciamo e che vorremmo non fossero mai accaduti.
Il miglior modo per onorare Luca Attanasio e chi era con lui, è accorgersi che ogni radice del male sta nella voracità dell’economia globale, dello sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano, sulla natura, sull’ambiente: dal suolo al cielo, dall’aria aperta a quella mefitica delle miniere dove lavorano come schiavi decine di migliaia di bambini. Mentre fuori combattono come piccoli soldati; mentre le ragazzine vengono rese schiave sessuali, le donne violentate, i vecchi abbandonati ad una morte quasi inevitabile, e non per l’usura naturale del tempo.
Vedere tutto questo, quindi esserne coscienti, è un primo passo. Soltanto il primo verso una nuova storia dell’Africa e del mondo. La storia di un futuro tutto da scrivere.
MARCO SFERINI
23 febbraio 2021
foto tratta da Facebook