Particolarmente affascinante è un’equiparazione, se vogliamo non direttamente riscontrabile nelle opere di Søren Aabye Kierkegaard ma da queste deducibile, per cui simili sono tanto la “cristianità” come società del culto, come impronta del potere ecclesiastico, quanto il rifugio ateistico dell’essere umano che si divincola nella quotidianità della disperazione. Siccome mi trovo in una posizione alquanto mediana, riconoscendo me stesso come agnostico, posso provare a discutere e scrivere di ciò con un piglio un po’ (forse) presuntuoso di terzietà.
Mi tocca parlare in prima persona – cosa che solitamente non faccio quando scrivo articoli come questo – perché altrimenti smarrirei questa mia, anche se soltanto proclamata, equidistanza tra due parti, tra due pensieri, tra due stili di esistenza che, a ben vedere, non sono poi così nettamente dicotomici. La Storia umana li ha posti uno di fronte all’altro, come se al sincero credente – quale ad esempio era il cristiano Kierkegaard – non fosse possibile un dialogo con il sincero ateo. Ma anche viceversa.
Ciò che il filosofo danese avversa, tra l’altro, nella cristianità da lui criticata con energica asprezza (ma mai pregiudizialmente) è la trasformazione del messaggio evangelico, nonché della figura di Gesù Cristo, in una sorta di fenomeno estetizzante, di persona deificata oltre ogni slancio metafisico, oltre ogni tertulliana propensione ad una condiscendenza verso quell'”absurdum” posto a pietra angolare della credenza figlia della fede.
Sostanzialmente, mentre l’ateo (se vogliamo almeno quello militante) propugna un’esistenza in cui è possibile fare a meno di Dio concettualmente e, quindi, anche nei risvolti pratici della propria vita, la cristianità che diviene altro rispetto al messaggio originario non è da meno una negazione della divinità perché sconfessa platealmente quello che è per Kierkegaard il “valore edificante” della fede o, per meglio dire, del Cristianesimo con la ci maiuscola.
L’ermeneutica del filosofo danese sta quindi nell’interpretazione pratica dei valori cristiani che sono condivisibili da tutte e tutti e traducibili praticamente nella vita di tutti i giorni. Ovviamente, l’ateo interpreterà le parole del Gesù storicamente esistito come un esempio di virtù, di libertarismo e di socialismo ante litteram. Il credente nella particolarità dell’essenza divina, proverà a vivere le stesse sofferenze da lui patite come percorso di espiazione dei peccati.
Ciò che del nucleo metafisico e religioso kierkegaardiano affascina, pur rimanendo entro un perimetro di critica kantiana (che comunque non ha mai teso a negare la metafisica se non nelle sue declinazioni dogmatiche, ergo religiose…) è quell’approccio nettamente critico nei confronti di un mondo che non ha abbracciato il messaggio evangelico in quanto tale ma che, facendo le dovute distinzioni da paese a paese, da epoca storica ad altra epoca, lo ha utilizzato per convenienze politiche, di mero potere, di sovraordinazione etica.
Il tema della disperazione, per Kierkegaard strettamente connesso alla nozione di “peccato“, può in un certo senso essere secolarizzato e venire trattato dal punto di vista antropologico con tutta una serie di risvolti psicoanalitici da trattare, comunque, con una certa prudenza. Scrive il Nostro: «…la cosiddetta cristianità non è soltanto un’edizione misera del cristianesimo, ma ne è un abuso». Sembra quindi consequenziale che il principio concettuale – quando non anche il punto di fede – riguardo Dio viene trattato da milioni di credenti come una adesione prima di tutto alle dottrine pastorali.
Colui che crede somiglia ad un innamorato giovane che è pieno di passione, di slancio verso la persona che ama: un sentimento che esprime nel rapporto che ha, mediante questo incontro di emozioni che sono in quel dato momento il senso dell’esistenza. Il travaglio della disperazione che si nutre dell’incomprensibilità della vita in quanto tale, è una dannazione riservata a chiunque incontri sul suo cammino un dubbio, una reticenza da parte di qualcuno rispetto alle risposte che si attende e che non ha. Così come è disperato colui che comprende il valore di un affanno così grande da essere parimenti irrisolvibile.
Kierkegaard trae questa convinzione, dell’esistenza della disperazione come risultato del confronto-scontro tra necessità umane e anelazione alla libertà, e tuttavia la risolve – o almeno prova a farlo – sostenendo che la malattia della disperazione è anche una opportunità. Da “mortale“, la malattia diviene un non semplice ma certo cammino di risoluzione di sé medesimi entro un contesto tutto nuovo di riscoperta dell’io, di sé stessi, di una identità che si riteneva smarrita. Nella finalizzazione deistica si coglie un universalismo tanto del dolore quanto della gioia.
Il problema della comprensione dell’esistenza dell’esistente non è messo da parte; semmai è interpretato come architrave di un edificio di sostanziale logicità della vita sulla Terra, del suo essere naturalmente vivibile fino a dove il cielo è visibile ma non oltre. Se proiettata nell’immensità dell’Universo, la razionalità rischia di perdere il suo potenziale perché costretta a confrontarsi con l’imponderabile: dalla totale assenza di un confine, di un limite, ai grandi, grandissimi, inconcepibili numeri su distanze, numero di pianeti, galassie…
La disperazione non è propria soltanto, quindi, di una narrazione un po’ retorica e banale che si fa sugli atei: loro sarebbero disperati a prescindere, poiché il rifiuto della credenza in Dio li metterebbe in una condizione di mancanza di qualunque ragione di vita. Ma la ragione della vita è – e qui anche il credente e cristiano Kierkegaard concorda pienamente – l’inalienabilità delle peculiarità di una razionalità a cui tutto non si può ricondurre e ridurre, ma che rimane importante per lo sviluppo della coscienza e di quel “senso di responsabilità” a cui richiama il filosofo danese.
Si deve poi distinguere tra disperazione e disperazione: «…quella per qualcosa di terrestre è la disperazione più comune. Più la disperazione viene penetrata dalla riflessione, più di rado la si vede o esiste nel mondo». Siccome chi si arrovella in mille domande non fa che alimentare un groviglio di congetture, lo scemare della disperazione lo si ha nel momento in cui al quesito si sostituisce la riflessione. Partendo dal presupposto che non vi è un senso complessivo dell’esistenza per l’ateo se non nell’esistenza stessa, per il credente, che vive un simile tormento, lo sguardo verso Dio è quel tipo di riflessione.
Speranza e fiducia superano, secondo Kierkegaard, quella razionalità che non risolve la vita ma che, quanto meno, ci indirizza verso una serie di comportamenti che permettono di riscontrare una consequenzialità di rapporti tra la natura delle cose e la natura umana. L’etica del rispetto vicendevole è un modo per superare quanto meno la disperazione per sé stessi, al di là di un ancestralismo di timori e di conflitti che, per quanto ci sembrino ostili nei nostri confronti, sono quella parte oscura di noi che ci permette ogni giorno di ricrearci non uguali e non identici al momento prima.
Esiste anche una disperazione che non necessita di un aiuto pratico così come di un sostegno psicologico: la condivisione delle esperienze è divenuta, soprattutto a partire dai primi anni del Novecento, un metodo utile per dimostrarsi reciprocamente che non vi è mai una vera solitudine delle sensazioni, una unicità intrinseca delle stesse sia dentro sia fuori di noi. La nostra mente è indubbiamente singolare, perché dalle nostre esperienze traiamo una serie di conseguenze che ci portano a sviluppare conoscenze su cui erigiamo cultura, abitudine, carattere.
Ma nessun essere vivente, tanto più se umano, può dirsi unico nella sofferenza, così come nella serenità. Le emozioni sono un patrimonio proprio di questa particolare complessissima evoluzione della materia che noi sapiens siamo. La disperazione, quindi, è una di queste emozioni e può essere, se non proprio categorizzata, quanto meno osservata e compresa entro certi rapporti di causa e di effetto. Non così meccanicistici come possa sembrare ad un primo sprazzo di intuizione, ma certamente non così lontani dall’essere disposti su un evidente piano dialettico.
La disperazione è il vivere la morte, è l’avvicinarsi ad una irrazionalità che sfugge ogni volta che si tenta di afferrarla, ed è un approssimarsi ad una condizione in cui diviene «l’assenza della speranza di poter morire». Per dirla con Epicuro, quella del timore della nostra non più esistenza futura è una paura insensata: fino a che siamo in vita, la morte non c’è e quando arriverà cesseremo d’essere noi. Ma è proprio qui il punto: l’essere in quanto esistere coscientemente. Il sapere di essere e di esserci.
La coscienza è parte dell’essenza e questa è, nella nostra espressione umana, autocoscienza che comprende molto bene cosa significa il suo esatto contrario. Il non-esistere è, quindi, il punto focale della disperazione: l’inanimato rappresentato dalle pietre, dai pianeti, dalla materia inerte che segue leggi fisiche (mutamenti di stato e trasformazioni continue) ben precise, ci sopravviverà: il nostro tempo è un nonnulla. Una brevità che pare trascurabile nell’eternità del resto oltre il nostro mondo.
Qui la vita appare un alito di vento, un bisbiglio all’orecchio, un sussurro e non un imponente fenomeno che lascerà il segno in una presunta storia cosmogonica. L’ateo si dispererà quindi più del credente? Non esiste una dimostrazione empirica in merito. La fede dovrebbe prescindere dal dubbio, ma non è sempre così: perché la nostra esistenza è legata ad un rapporto intenso con la domanda, con il quesito come chiave conoscitiva delle sensazioni introspettive (della coscienza come espressione intima di Dio, della psiche come anima laica) e come porta su una sempre maggiore acquisizione dell’esperienza.
L’ateo, quindi, non è condannato a subire l’incomprensibilità della vita, ma ad accettarla in quanto tale. Il credente non è costretto a vivere la fede come una cesura dalla razionalità e, dunque, non esclude il dubbio: perché siamo tutti animali umani dotati di una autoconsapevolezza che è insopprimibile. Forse anche questo è un dono di Dio. O forse è una qualità già presente nella materia che, laddove si creano le precise, meticolose condizioni per lo sviluppo di esseri simili o uguali a noi, capaci di discernimento, si sviluppa conseguentemente.
Ma nulla esclude che Dio esista. Quando l’ateismo diviene ostinazione della negazione, si ridicolizza e perde la sua capacità critica più interessante: insinuare il dubbio. L’agnosticismo è molto più onesto intellettualmente: non nega e non afferma. Constata e lascia che la fascinazione del mistero dell’Universo e dell’essere (Parmenide torna sempre a trovarci…) sia qualcosa di diverso da ciò che abbiamo immaginato sino ad oggi oltre le scoperte della scienza. A cui non è possibile affidare il compito della risoluzione del mistero stesso.
Ma saperne un po’ di più non è un peccato, anche se non esaurisce il compito della disperazione nella quotidianità umana. Almeno serve a distrarci un po’ e a rimandare la punta massima della frustrazione al giorno dopo e quello dopo ancora, fino alla fine del nostro tempo.
MARCO SFERINI
23 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria
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