Boris Kagarlitsky, Alexei Navalny. Del primo non si praticamente nulla, nemmeno si conosce il nome qui in Occidente. Del secondo si sa praticamente o quasi tutto. La differenza tra questi due dissidenti russi sta anche, probabilmente, nel fatto che il primo è un marxista, un comunista che aveva espresso la sua eterodossia già in tempi non sospetti di putinismo, quando ancora la bandiera rossa con la falce e martello sventolava sul Cremlino, mentre Navalny è figlio di una protesta che è montata negli ultimi cinque lustri, quando il potere in Russia stava diventando oligarchico, autoritario e incapace di reggersi se non con la repressione e la violenza.
E’ abbastanza emblematico che la storia di Kagarlitsky non sia per niente nota ai media occidentali. Chi frequenta le pagine online di Amnesty International ne avrà certamente sentito parlare. Ma chi legge i quotidiani nazionali o ascolta la radio, oppure scorre pagine della rete che non si occupino espressamente di politica estera e di dissenso, è quasi sicuro che non abbia mai letto o sentito del filosofo marxista condannato a cinque anni di carcere come “agente straniero“, come “terrorista“.
Chi potrebbe salvarlo dalla dura condanna che gli è stata inflitta per aver pubblicato sui social un video del ponte di Crimea saltato in aria, associandovi un commento irriverente nei confronti del Cremlino, è quella Corte suprema che, non molto tempo fa ha dichiarato fuorilegge le organizzazioni LGBTQIA+. Difficile, quindi, poter ritenere equilibrato il giudizio, visto che qui non si tratta nemmeno di intaccamento della morale che lo Stato pretende abbiano i cittadini, i cui comportamenti sessuali si devono adeguare allo standard del dio-patria-famiglia che conosciamo bene anche noi.
Qui si tratta di una accusa di tradimento, di collaborazione con un nemico che Putin vede un po’ ovunque, tranne che nei suoi alleati in Medio Oriente, nella Cina o nel resto dei paesi BRICS. Non che non ne abbia qualche ragione. Ci siamo ripetuti sino alla nausea di come l’espansionismo della NATO e la rivoluzione del multipolarismo mondiale abbiano risvegliato la guerra un tempo fredda e oggi diventata caldissima nell’Est di una Europa che è il terreno di prossimità degli interessi nord-atlantici. Ci siamo ripetuti, inoltre, che questa rinascita imperialista moderna è certamente una delle cause che hanno indotto la Russia ad aggredire l’Ucraina.
Ma tutto questo non giustifica la dittatura putiniana, così come non giustifica la finzione democratica ad ovest. Le democrazie liberali sono le sostenitrici del peggiore liberismo, delle torsioni capitalistiche che hanno tentato lo strangolamento economico di molti paesi dell’Est. Sia quando, crollato il muro di Berlino, la colonizzazione è partita in tutta fretta, per conquistare, nell’assoluto vuoto di potere russo (passato dalla graniticità effimera dell’URSS all’inconsistenza oggettiva della Confederazione degli Stati Indipendenti) gli ampi spazi lasciati nei satelliti dell’ex impero sovietico; sia quando al predominio economico è seguito, di pari passo, quello militare.
Le posisizioni si sono venute sempre più marcatamente irrigidendo e l’ascesa di Putin ha coinciso con la necessità di non lasciare la Russia priva di un potere centrale forte, proprio mentre le spinte secessioniste si facevano sempre più sentire. Non si trattava solamente di quelle delle repubbliche ex sovietiche del Baltico, le prime a lasciare l’Unione; e nemmeno di quelle caucasiche o asiatiche. Il dramma della Cecenia è lì a ricordarci, nei profondi mutamenti storici di quei momenti, che la Russia ha rischiato una implosione e che, purtroppo, i tentativi democratici sono falliti perché la gestione del potere è finita in mano ad una oligarchia nuova e vecchia al tempo stesso.
Per questo, la dissidenza di Boris Kagarlitsky ha potuto continuare ad avere, nel corso degli anni, una ragione fondante di stretta attualità nel passaggio dal regime sovietico a quello del putinismo per come abbiamo potuto conoscerlo dal 1999 al 2008 e poi, dopo la parentesi della staffetta con Medvedev, nuovamente dal 2012 ad oggi. Ma del sociologo dissidente non si da notizia come per Navalny. Ed allora viene da chiedersi perchè. Un intellettuale accusato di essere, sostanzialmente, un agente dello straniero non diventa amico dei valori di libertà democratica così come accade per il giovane avvocato morto in una sperduta prigione della Siberia, ai bordi del circolo polare artico.
Perché? Anzitutto perché la cultura politica dei due è notevolmente agli antipodi. Per Kagarlitsky si muovono personalità internazionali come Jean-Luc Melenchon, Slavoj Zizek, Jeremy Corbin, Etienne Balibar, Ken Loach, Tarik Ali, Gilbert Achcar, Olivier Besancenot. Tutta gente di sinistra, di sinistra radicale: socialisti, comunisti, libertari. Per Navaly parteggiano essenzialmente i governi occidentali che in lui, nazionalista e di simpatie tutt’altro che progressiste, scorgono il grimaldello per alterare gli equilibri imposti alla finzione democratica e partecipativa elettorale in una Russia in cui la dialettica parlamentare piace soltanto se condiscende ai voleri del presidente.
Lo stesso Partito Comunista della Federazione Russa, che è con nettezza un soggetto politico di opposizione rispetto al putinismo, che ha osteggiato la sua riforma costituzionale nel 2020 (in pratica la consegna del potere al presidente di poter essere nuovamente tale per altri due mandati…), sostiene la cosiddetta “Operazione militare speciale” sull’onda del revanchismo patriottardo della vecchia URSS che guardava alla ricostituzione del vecchio sogno imperiale pur dentro l’ambiguissimo progetto dell’impossibile realizzazione del “socialismo in un solo paese“.
Dunque, ragioni storiche e ragioni che afferiscono alle relazioni internazionali nella modernità attuale del liberismo a tutto spiano, sono alla radice di una differenziazione nei rapporti che l’Occidente pensa di avere, ed infatti ha, con la molteplice e differente realtà della dissidenza al putinismo. Una parte della sinistra in Europa guarda a Vladimir Putin come ad avversario del più attuale e concreto tentativo dell’imperialismo statunitense e del militarismo NATO di riportare l’asse economico-politico del mondo sull’unipolarismo post-1989; fatte salve ovviamente tutte le nuove caratterizzazioni dei rapporti di forza correnti.
Un’altra parte della sinistra, più moderata e meno intransigente nel portare avanti le ragioni del mondo del lavoro e di una rinascita dei veri valori del comunismo libertario e dell’anticapitalismo, ricerca in figure come quella di Navalny dei nuovi eroi a cui votarsi per non sembrare così retrò, così ancorata ad un passato sovietista che, a dire il vero, solamente la molto improbabile intellighenzia della destra, ad esempio italiana, sarebbe ancora presente nelle effervescenze oligarchiche del potere che circonda Putin e di cui il presidente si nutre.
Una volta per tutte diciamolo con chiarezza: l’anticapitalismo non ha nulla a che spartire né con l’Occidente liberista né con il putinismo satrapico. Tuttavia si ripropone il vecchio schema in tema di diritti: le democrazie liberali fanno convivere la spietatezza della negazione di quelli sociali con la progressione di quelli civili, mentre i regimi autoritari non tentano nemmeno questo. La repressione nei confronti dei diritti delle comunità LGBTQIA+ è la più lampante e chiara dimostrazione di tutto ciò. Ma a noi sembra interessare non tanto la stabilizzazione di una democrazie vera in Russia, quanto l’esportazione del nostro modello democratico.
Quello che scambia la libertà di esprimersi con quella di essere sfruttati senza alcuna remora. Un tempo, quando l’URSS era ancora il paese dello “stato sociale“, qualche differenza in positivo, a favore dei paesi dell’Est, la si poteva sottolineare e prendere in prestito per giustificare parzialmente gli eccessi autoritari di uno Stato divenuto esso stesso il padrone di tutto, nonostante tutti. Crollato quel sistema di tutela dei diritti essenziali di una vita comunque miserevole, concentrata tutta nell’autoreferenzialità, nel guardare soltanto i propri progressi per evitare di aprirsi al resto dell’economia mondiale nel nome di un dogma falsamente marxista, ogni alibi è venuto letteralmente meno.
I neocomunisti di fine Novecento e di inizio del nuovo millennio sono stati soltanto in parte in grado di leggere la realtà odierna senza farsi condizionare troppo dai pensieri del passato. Il non venir meno dello strapotere americano e nord-atlantico, la cui base europea è servita per preparare l’assalto alla fortezza russa in questi ultimi decenni, ha forgiato le precondizioni necessarie affinché lo sviluppo dell’orso dell’est fosse improntato ad una reazione uguale e contraria. Se oggi Putin è ancora capace di muovere guerra, di non essere scalzato dai suoi stessi uomini (ci si ricordi dell'”affaire Prigožin“) e di diventare l’alternativa per molta parte dei paesi progressisti, è in virtù di un antiamericanismo che non può non essere letto in chiave negativa.
La superiorità morale dei valori occidentali si infrange come un cristallo che cade su un masso, proprio nell’attimo in cui viene invocata per mostrare che dall’altra parte ci sono solamente i tiranni. In quanto a tiranneggiamenti, dispotismo, imposizioni, repressioni, colpi di Stato, guerre di aggressione, razzismo, xenofobia… gli Stati Uniti e i loro alleati non sono certamente secondi a nessuno. Ovvio: se, parallelamente, osserviamo il progresso dei diritti individuali, quelli civili ed umani, riscontriamo nei paesi occidentali dei passi avanti. Ma pur sempre in un insieme di contraddizioni che sembrano risolversi con grande lentezza e a prezzo di grandi sacrifici umani.
Il movimento di liberazione LGBTQIA+ nasce in Occidente e si diffonde ovunque nel mondo. Così il movimento femminista. Così quello delle lavoratrici e dei lavoratori. Così la Prima Internazionale. Le ragioni storiche sono evidenti: illuminismo, rivoluzioni nazionali e continentali, dopo secoli di colonialismo, di sopraffazione di intere civiltà, dopo che l’Europa aveva praticamente conquistato il mondo dal ‘400 alla fine dell’800. La Russia e la Cina parevano mondi lontani. Ed in effetti lo erano. Preservatisi nella loro particolarità culturale: parte degli assi di sviluppo del mondo antico, ma timorosi di diventare essi stessi “mondo moderno“.
La dissidenza russa oggi patisce tutte le conseguenze di un cammino storico in cui il grande paese un tempo degli zar è erede di un patriottismo nazionalistico che è stato, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, esasperato come collante federativo, come unica ragione di esistenza. L’identità etnocentrica, quella culturale e quella religiosa poste al di sopra delle necessità sociali e della libertà di pensiero e di diffusione dello stesso. Per questo Navalny faceva paura a Putin: perché era il portatore di una alterità tutt’altro che democratica. Una prospettiva di occidentalizzazion totale della Russia, oltre che una minaccia politica per il suo potere.
Invece uomini di cultura radicale, veramente comunista, come Boris Kagarlitsky sono temuti perché non guardano a nessun’altra alternativa in chiave geopolitica o etnocrentrica se non quella della giustizia sociale che manca e, con essa, tutti i valori civili e i diritti umani che ne fanno parte e che l’accompagnano nel progresso globale. E’ per questo che riesce molto difficile fare di Navalny un eroe della libertà e della democrazia: perché si tratta delle libertà e dei princìpi democratici che ben conosciamo. Quelli che sono pienamente vivibili ed assaporabili se si hanno le tasche piene di soldi.
Ed è per questo che, rispettando la lotta di Navalny, un oppositorie che non avrebbe dovuto morire nelle carceri di Putin, non possiamo non guardare a tutte quelle altre dissidenze che l’Occidente fa finta di non vedere. Perché gli sono ostili tanto quanto lo sono nei confronti del regime russo. Parliamo di Boris Kagarlitsky ma anche di Julian Assange. Se dovesse essere estradato negli Stati Uniti d’America, vedremo all’opera la macchina della repressione a stelle e strisce. Se pensate che sia meno cruenta di quella putiniana, avrete purtroppo modo di ricredervi.
Il dissenso deve poter essere libero. Soprattutto in quei paesi che dicono di essere patria della stessa idea moderna di democrazia. Quei paesi che hanno creato Guantanamo, che hanno lanciato bombe al fosforo bianco nelle Guerre del Golfo, che hanno lasciato l’Afghanistan in balia dei Talebani, che sono stati, dagli anni ’80 in poi del secolo scorso, le lavratrici dei peggiori gruppi terroristici. Un boomerang devastante, da rivolgere contro gli innocenti, per impadronirsi di terre e materie prime. Pretesti ed ipocrisie indegne dell’alta, superiore morale di cui la Repubblica stellata sostiene di essere portatrice universale.
MARCO SFERINI
20 febbraio 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria