Tra qualche giorno, per decreto del governo, diremo addio alle mascherine all’aperto, laddove non si creino assembramenti e situazioni comunque pericolose per la salute. Il 28 giugno diventa quindi una data simbolica, quella, se non proprio dell’abbandono, almeno della riduzione degli obblighi, di una inversione di tendenza che parrebbe essere irreversibile.
Sappiamo un po’ tutti che le formalità istituzionali non possono obbligare una pandemia a retrocedere: anzi, spesso e volentieri l’hanno aiutata a progredire mediante errori di valutazione politica dei dati forniti dalla scienza. A parziale scusante nessun alibi postumo, semmai la consapevolezza di tutta l’inadeguatezza di una società impreparata ad affrontare una imprevedibilità assoluta, qualcosa su cui nessun giocatore d’azzardo avrebbe mai scommesso anche una sola, miserrima fiche.
Fa sorridere quindi un po’ l’aver fissato un giorno preciso per la fine dell’obbligo permanente di tenere la mascherina all’aperto: del resto chi è che non ha mostrato un sorrisetto sardonico quando si sentivano elencare gli orari del coprifuoco? Ci siamo anche involontariamente beffati, per un attimo soltanto ma pur sempre inopportunamente, del lavoro di chi aveva suggerito al governo quei tempi e quei modi di applicazione di una serie di norme per contenere l’espansione del Covid-19.
Dalle dieci di sera alle cinque del mattino cosa poteva succedere? Domanda che ha imperversato sui social, che ha rimbalzato continuamente per mesi come segno di insofferenza manifesta verso restrizioni che duravano da molti mesi e che non accennava a diminuire visto il progredire della pandemia.
Domande apparentemente banali e che, sovente, abbiamo sottovalutato nella loro portata di disagio sociale e di ogni singolo cittadino: le abbiamo iscritte alla categoria esclusiva del “negazionismo” e del “riduzionismo“, pensando che così avremmo trovato la risposta più giusta al malessere che montava nel Paese e che veniva utilizzato dai sovranisti per primi, nonché da tanti altri seminatori di discriminazione, fantasie di complotto e amenità simili, per esasperare la rabbia popolare, trascinarla sul terreno dello scontro antisociale, della lotta tra poveri e far dimenticare loro le vere questioni dell’aumento della povertà.
Una povertà che la pandemia ha accresciuto ma che non ha generato. Una povertà figlia di una modernità tanto esaltata quanto ingombrante, presupposto di un logoramento della vita che è anche e soprattutto materiale e che, prima di ogni altra attribuzione, è psicologico, spirituale, morale e (anti)culturale.
Affrontare con pressapochismo gli eventi che ci sono capitati addosso in questi ultimi due anni è, in fondo, la naturale e logica conseguenza del duplice pauperismo citato: l’ostilià di un terzo degli italiani nei confronti della scienza è anche comprensibile, viste le pessime campagne informative istituzionali inquinate dalla bulimia di informazioni gettata dalla televisione e dai social contro ognuno di noi, quotidianamente, ventiquattro ore su ventiquattro, da sempre e in particolare a far data da quel 21 febbraio 2020 quando tutto iniziò e mettemmo le mascherine.
Ma la mancanza di una protezione culturale-sociale (e viceversa) ha influito pensantemente nei contraccolpi assestati dalla superficialità che ne è derivata sul terreno informativo: l’accesso facile ai dati, ai fatti presenti su ogni quotidiano e sito istituzionale non è stato sufficiente per smontare immediatamente le tante “fake news” che si sono riprodottte vertiginosamente nel corso dei mesi e che hanno alimentato una mirade di sciocchezze.
Per i fantasisti del complotto doveva (e deve) esistere una alternativa di inforamzione esattamente opposta ai canali ufficiali: la giusta critica nei confronti del potere che tende ad occultare ciò che può nuocergli, è diventata in un battibaleno il sospetto alienante e perverso su qualunque persona, su qualunque cosa. Sempre presente grazie ad Internet ed alla irregimentazione che ci siamo dati (più o meno consciamente) nel rimanere costantemente connessi. A tutto. Senza distinzione, senza filtri, senza più la capacità critica di separare il mondo delle idee da quello della concretezza.
Non serve scomodare Platone per capire le differenze ed anche le affinità tra idee e realtà, basta semplicemente osservare quanto iato c’è oggi tra l’iperuranio moderno e la modernità stessa delle relazioni quotidiane che sono fatte di percezioni più che di fattualità. Si tende a relativizzare ciò che è oggettivo e si oggettivizza invece ciò che a mala pena ottiene la patente di relativo, perché andrebbe invece collocato nell’armadio delle mere “fantasie“: immaginazioni deliranti che parlano di Deep State, di complotti pedo-satanisti mondiali (QAnon, tanto per gradire) in cui ci sta bene, ovviamente, qual si voglia invenzione sull’origine del virus dentro al contesto capitalista che tutto sfrutta e che nulla lascia al caso.
Dunque il 28 giugno, per chi si è evitato la nevrosi isterica del complottismo sarà il momento di avere un po’ meno ansia sul contagio, senza dimenticare le protezioni e le regole che abbiamo imparato; per chi è invece pensa che i vaccini siano veleni fatti con il residuo dei feti abortiti o che veicolino nei nostri corpi un microchip per controllarci (come se non lo fossimo già abbastanze e in modo totalizzante senza altre invenzioni sopra o sottocutanee), allora forse sarà la fine della cosiddetta “dittatura sanitaria“.
Ma perché mai, in fondo, dovrebbe finire tutto. I “fantastisti del complotto” si inventeranno qualche altra distrazione per allontanare la mente della gente dalle cause delle sofferenze sociali. La lotta contro la pandemia è stata e rimane un esercizio di civicità, di civiltà verrebbe da dire: perché ci ha coinvolto tutte e tutti in una enorme modificazione dei nostri stili di vita considerati presuntuosamente (e illusoriamente) “la normalità“. Quella per antonomasia. Siamo stati travolti dalle nostre certezze prima ancora che dalle nostre insicurezze. Abbiamo dovuto imparare a riconoscere nuovi nemici, mettendo da parte – per lo meno nel primo anno di sviluppo dei contagi – quelli invetati dai sovranisti per opportunismo politico; e pure quelli creati dai mercati per farci credere che la felicità stia nel possesso piuttosto che nella condivisione.
Ci toglieremo le mascherine a poco a poco, con prudenza. Ma non necessariamente questo vorrà dire essere liberi se – parafrasando Gaber – non partecipereno di più a tante attività che costruiscono quella cultura di massa di cui c’è bisogno e che può, unitamente alla lotta di classe, cambiare la vita di ciascuno e di tutti.
MARCO SFERINI
24 giugno 2021
Foto di Alexandra_Koch da Pixabay