In principio era l’acqua. E l’acqua sostentava Ninive, l’ultima grande capitale dell’impero Assiro, ubicata nel territorio dell’odierna Mosul. In quest’ampia regione di circa 3000 kmq, a cavallo tra le imponenti catene montuose dello Zagros e le immense pianure ondulate attraversate dal Tigri e dai suoi affluenti, la missione congiunta italo-curda diretta da Daniele Morandi Bonacossi e Bekas Jamaluddin Hasan (succeduto nel 2021 a Hasan Ahmed Qasim) ha individuato 1150 siti archeologici, databili dal Paleolitico all’epoca ottomana.
Le ricerche dell’Università di Udine e della Direzione delle antichità di Duhok s’inseriscono nel quadro del progetto archeologico regionale «Terra di Ninive (ParteN)» attivo dal 2012 nel Kurdistan iracheno, il quale può contare su numerosi partner (Ministero degli affari esteri e della Cooperazione internazionale, Regione Friuli – Venezia Giulia, Fondazione Friuli, ArcheoCrowd srl, 3DT srl, 3DFlow, Fondazione Aliph, Gerda Henkel Stiftung e Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo).
Ricostruire la storia dell’utilizzo delle risorse, a partire dall’acqua e dai suoli, nell’antica Mezzaluna fertile è tra gli obiettivi principali del ParteN. L’interesse scientifico della missione riguarda infatti l’analisi di quel processo, noto come transizione neolitica, che sancì il passaggio da un’economia predatoria, basata sulla caccia e sulla raccolta, a un’economia di tipo produttivo. Al centro del progetto ci sono la nascita dello Stato e delle prime città, processi cruciali per la storia dell’Uomo, che ebbero la loro genesi proprio in quest’area del Medioriente.
Tra l’VIII e il VII secolo A.C. l’Impero Assiro si estendeva dal Golfo Persico all’Iran occidentale. Esso occupava l’intero Iraq e la Turchia sudorientale, fino a comprendere tutto il Levante e, più a sud, l’Egitto. Nella regione che costituiva il fulcro del primo impero «globale» del mondo antico, l’équipe italo-curda ha potuto ripercorrere, dal punto di vista materiale e simbolico, le dinamiche di costruzione del nuovo organismo di potere. I 350 siti attribuiti durante le ricognizioni a questo periodo s’identificano con piccoli borghi agricoli, fattorie isolate e alcuni centri di tipo urbano che dovevano garantire l’amministrazione delle terre collocate nel distretto di Ninive.
Lungo 340 km si avvicendavano canali, corsi d’acqua perenni o stagionali il cui flusso veniva deviato, sbarramenti fluviali, argini, dighe e anche i primi acquedotti in pietra. Un sistema finalizzato all’aumento della produzione, necessaria a implementare lo sviluppo demografico e sociale di una capitale di circa 100mila abitanti, sostenendone lo sforzo imperialistico.
Tra queste infrastrutture idrauliche vi è l’impressionante canale di Faida, scavato nella roccia ai piedi di una catena di colline, dalle cui sorgenti carsiche l’acqua veniva convogliata. Sulla sponda sinistra del canale, nel 2019 e in seguito nel 2021 (nel 2020 le ricerche hanno subito un’interruzione a causa della pandemia di Covid-19), gli archeologi del progetto «Terra di Ninive» hanno scoperto dodici straordinari rilievi rupestri di quasi 5 mt di larghezza per circa 2 mt di altezza.
Su ciascun pannello è ripetuta la medesima scena, inquadrata a destra e a sinistra dalla figura del sovrano. Egli è rappresentato in preghiera di fronte alle statue, sul podio, delle principali divinità del pantheon assiro: davanti al re è il dio Ashur – di dimensioni superiori agli altri personaggi -, a cui segue la consorte, la dea Mullissu, seduta su un trono intarsiato che poggia a sua volta sul dorso di un leone. Dietro la coppia «suprema» si dispongono il dio lunare Sin, stante su un essere mitologico (Abubu) che allude al diluvio universale, e Nabu – dio della sapienza che ha donato al mondo la scrittura -, ritto su un dragone. E poi ancora Shamash, il dio del sole rappresentato su un cavallo, e il dio della tempesta Adad, il quale impugna un mazzo di fulmini, in piedi su Abubu e sul dio toro. La processione è chiusa da una seconda divinità femminile, Ishtar, dea dell’amore, della fertilità e della guerra.
L’importanza della scoperta, insignita nel 2019 dell’«International Archaeological Discovery Award ‘Khaled al-Asaad’», non risiede soltanto nell’eccezionalità dei rilievi scultorei ma anche nell’opportunità di salvaguardare un sito minacciato dagli agenti atmosferici, dal vandalismo e dall’espansione delle attività produttive. In quest’ambito, da ormai dieci anni, l’Università di Udine si distingue a livello internazionale per il prezioso contributo dato alla Direzione delle antichità di Duhok.
Per proteggere i loro canali che, intersecati da corsi d’acqua stagionali, rischiavano – specialmente con lo scioglimento delle nevi sui monti Tauro e Zagros – di essere distrutti da piene devastanti, gli ingegneri assiri costruirono acquedotti in pietra ben quattro secoli prima dei Romani, ritenuti a torto gli inventori di questa tipologia di monumenti. Fino a poco tempo fa si riteneva che il colossale acquedotto di Jerwan (lungo 230 mt e largo 23 per un’altezza di 10 mt dal suolo) scavato negli anni ’30 del XX secolo dall’Istituto orientale dell’Università di Chicago, costituisse un unicum.
Ma la ricognizione effettuata dalla missione italo-curda ha condotto alla scoperta di altri quattro acquedotti: lo scavo di uno di essi, ubicato a Shiv Asha, ha consentito di riportare alla luce finora due piloni; dell’acquedotto di Shivka Hadrah, distrutto dalla speculazione edilizia, è stato invece possibile recuperare quattro blocchi con iscrizioni cuneiformi. Il testo, copiato da Luigi Turri dell’Università di Verona e tradotto da Mario Fales, fondatore dell’Orientalistica all’Università di Udine, recita così: «(Io sono) Sennacherib, re del mondo, re d’Assiria. Per una lunga distanza dal fiume Hazur io ho fatto scavare un canale fino ai pascoli di Ninive. Sopra profonde fiumare ho fatto costruire un acquedotto di blocchi di calcare (e) sopra esso ho fatto passare queste acque».
Prima delle ricerche avviate da Morandi Bonacossi in collaborazione con i colleghi del Kurdistan iracheno, si avevano scarse notizie anche a proposito della coltura della vite in Mesopotamia. Fonti indirette, come i rilievi che decoravano i palazzi reali, testimoniano il consumo del vino in contesti religiosi tra IX e VII secolo a.C.
Inoltre, nella «stele del banchetto» vengono elencati gli alimenti usati da Assurnasirpal II per l’inaugurazione della sua reggia a Kalkhu (sfortunatamente distrutta in parte dall’Isis nel 2015): assieme a migliaia di animali, uova e volatili, il re aveva offerto nell’864 a.C. 10mila otri di vino, 10mila marmitte di vino cotto con miele e 100 cesti di uva. A distanza di secoli, la scoperta di un’area vinicola nel sito di Khinis ha finalmente permesso di comprendere il processo di vinificazione.
Qui, la missione italo-curda ha rinvenuto 14 vasche per la spremitura dell’uva e la produzione del mosto: il liquido confluiva in pozzi circolari per poi essere «imbottigliato» in grandi giare. Ancora oggi, la presenza – nella zona di frontiera tra l’Iraq del Nord e la Turchia orientale – di comunità cristiane, favorisce la produzione di vini pregiati.
Un’etichetta ostenta il nome del grande re assiro Sargon II, ricucendo il filo con un passato glorioso che l’Università di Udine ha contribuito a restituire alla comunità scientifica internazionale ma soprattutto alle collettività locali.
VALENTINA PORCHEDDU
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