Le celebrazioni, se non scadono nella più inconcludente delle retoriche patriottarde, hanno il valore della solidità della memoria tramandata con riti che, necessariamente, devono scontrarsi con la diversità dei tempi: il rischio che anche queste parole scritte possano risuonare come un semplice epitaffio di un evento consegnato al passato, piuttosto che come rinverdimento di alcuni episodi di una storia che deve essere ricordata, approfondita e conosciuta compiutamente, ci sono sempre.
Ma i rischi tendono allo zero quando si iniziano a snocciolare i fatti: dunque nomi e cognomi di gente che ha vissuto e che è morta nel tempo di una dittatura totalitaria che ha avvinghiato l’Italia per vent’anni e l’ha trascinata in una guerra disastrosa; nomi di loghi, di eccidi, di stragi che a volte sono state generate dal caso, dalla fatalità e altre volte sono state invece scientemente programmate per dare sfogo al programma politico che ci si era dati fin dalla fondazione dei Fasci di Combattimento o da quella del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi.
Dalla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, le storie della guerra cambiano: sono sempre racconti di tragedie, di bombe che cascano dall’alto, di torture che le camicie nere della Guardia Nazionale Repubblicana, le bande come quella di Pietro Koch mettono sistematicamente in pratica finendo ad essere i gregari del colonnello Kappler nella scelta degli italiani da mandare a morte alle Cave Ardeatine.
Sono storie lugubri, dove un filo di luce entra mestamente nel grigiore e nel nero littorio di un tempo decadente, quei 600 giorni di Salò che saranno la peggiore e più nefasta delle trasformazioni criminali del mutaforme fascismo italiano, perché in essa si sommeranno tutte le specialità violente e repressive del regime, appendice del Terzo Reich, fantoccio di un imperialismo a cui avrà ispirato anche sogni di grandezza ma che, a far data dalla proclamazione della guerra in poi, ha sempre di più marcato il passo rispetto alla potenza bellica nazista.
Lo sapevano bene gli alpini dell’Armata Italiana in Russia (ARMIR) e tutti quei soldati costretti a combattere nel gelo delle steppe, attorno a Stalingrado, guardandola da lontano e scorgendo i soldati di Paulus soffocare nella tenaglia dell’Armata Rossa.
Mentre cambiano i racconti di guerra, mentre la guerra stessa cambia e diventa da trionfo e gloria per Hitler, una inesorabile e inarrestabile disfatta, in Italia quel 25 luglio del 1943 si rovescia completamente il volto del Paese: fino a poche prima dello svolgersi della drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo, quella notte del 24 in cui tutti non dormono, in cui sono principalmente le donne del regime che chiedono informazioni notturne al centralino di Palazzo Venezia (Edda Ciano Mussolini, Rachele Mussolini e Claretta Petacci), l’Italia si corica col fez e la camicia nera e si sveglia completamente ignuda.
La mattina del 25 luglio nessuno sa ancora nulla del voto sull’Ordine del Giorno presentato da Dino Grandi. Ma ben presto le notizie scorrono: è la giornata del precipizio in cui il fascismo cade irrimediabilmente, dopo che gli alleati sono sbarcati in Sicilia due settimane prima e hanno praticamente occupato metà dell’isola, dopo la totale disfatta sul fronte africano, la resa di 70.000 tedeschi a Stalingrado. Sono tutti biglietti di avviso di sfratto dall’Europa per il nazifascismo, nemmeno più presagi o premonizioni, ma la sicurezza della sconfitta in una guerra dove le maggiori potenze mondiali si sono, alla fine, coalizzate contro il Ro.Ber.To. (l’asse Roma – Berlino – Tokyo).
L’Italia del trasformismo si rianima, archivia il nero e si apre ai colori dei partiti antifascisti: il biancofiore democristiano, il rosso dei socialisti e dei comunisti, la tinta più scura degli azionisti, il verde dei repubblicani, l’acromatopsia dei liberali. Oggi tutto questo verrebbe liquidato, su una spinta tipicamente modaiola, come “resilienza“, una capacità di adattamento da parte del popolo, una virtù quindi, una qualità.
I fatti storici, se esaminati attentamente, dimostrano l’esatto contrario: quel 25 luglio la meraviglia è tanta che impedisce di scorgere l’esatta portata del fenomeno, la dirompenza con cui si riversa sull’intero Paese e gli effetti che potrà avere.
I primi dubbi sulla reazione di Hitler all’annuncio della caduta di Mussolini sembrano fugati dal proclama di Badoglio: il maresciallo d’Italia mette fine alla speranza di poche ore sulla fine della guerra. Continua. E continua al fianco dei tedeschi. In realtà si sta trattando con gli alleati per l’armistizio che sarà firmato a Cassibile l’8 settembre, ma ufficialmente tutto rimane – si fa per dire – come prima.
La scossa tellurica della caduta del regime fascista è tanto potente da fare del 25 luglio la prima, vera data importante di separazione dell’Italia dalla continuità del Ventennio: si infrange l’immagine di un mostruoso moloch a cui tanti sacrifici umani erano stati riservati nel nome della rinascita della nazione sui “colli fatali di Roma“, nel solco tracciato dall’aratro e difeso dalla spada, per “credere, obbedire e combattere“, massacrando inermi africani per fondare un impero che avrebbe dovuto porre il regnucolo sabaudo al pari dei grandi altri imperi coloniali.
Ma il 25 luglio è importante anche perché mostra tutta la fragilità del consenso del regime che, alla fine, si regge sul terrore ma non su un vasto consenso di massa. Del resto, noi non siamo eredi, come i tedeschi, di un Federico il Grande di Prussia: Mussolini non ha un ritratto di Giulio Cesare da rimirare negli ultimi giorni di Salò, sulle rive del lago, dove la malinconia sembra non finire mai, dove l’incipiente vecchiezza tradisce qualunque mimica ottimistica messa in scena per figurare ancora d’essere il capo della “repubblichina“.
Hitler che, anche negli ultimi giorni del bunker, nella Berlino assediata dai russi, contempla sempre più spesso il ritratto del re che unificò lo Stato che darà poi vita al II Reich con Bismarck.
Sono lontanissime le “genti di Roma” e l’onnivora propaganda dei gerarchi e del Partito Nazionale Fascita (PNF) ha finito col mescolare un po’ tutto ciò che è storia dello Stivale: da Augusto a Mazzini, dal povero Balilla ai Fratelli Bandiera. C’è chi compare su litografie simili a quelle che circolavano in Germania verso la fine degli anni ’20 e l’inizio del decennio all’ombra della svastica, per indurre i tedeschi a votare NSDAP. Sono cartoline ideate ada Hans von Norden e la didascalia che accompagna i volti di Federico II di Prussia, Otto von Bismarck, Paul von Hindenburg e naturalmente il loro “erede” Adolf Hitler è emblematica: “Ciò che il re ha conquistato, il principe ha formato, il Feldmaresciallo ha difeso, il Soldato ha tratto in salvo e unificato“.
Qui la linea di sangue che si vuole stabilire è ben precisa: dalla Prussia al Terzo Reich. Una continuità rivendicata prima di tutto tramite la fortezza delle armi, l’assoluta dedizione all’obbedienza come valore fondante della nazione, come indiscutibile fonte di energia collettiva che va verso il Führer e che da lui ritorna verso il popolo.
In Italia non è possibile nessuna empatia storico-attualistica di questa natura: benché l’unità tedesca sia addirittura più tarda di quella italiana di dieci anni e si realizzi senza particolari moti di popolo, ma dopo la sconfitta della Francia di Napoleone III a Sedan, il sentimento unitario dei germanici è ancestrale, si rifà alle gesta di Arminio e viene compenetrato di tutto l’esoterismo possibile dalle abili manovre antistoriche, apertamente revisionistiche, di Himmler.
La prosecuzione della guerra senza capovolgimenti a centottanta gradi delle convinzioni di massa, come avvenuto in Italia il 25 luglio del ’43, in Germania è possibile perché non si ravvisa a Roma nessuna presenza di un istituto anti-storico come l'”Ahnenerbe”, il cui nome completo significa “Società di ricerca dell’eredità ancestrale” (si consiglia, a proposito, la lettura del testo di Marco Zagni, “La svastica e la runa“, Ugo Mursia editore).
Coltivando costantemente la falsificazione tanto della storia quanto del presente, il regime nazista cerca di costruire il mito della “razza ariana” inventandolo di sana pianta ma penetrando a fondo nei meandri della storia teutonica.
L’identità nazionale italiana è posticcia, vedrà la luce soltanto con la rinascita antifascista, con l’incontro delle differenti posizioni politiche e visioni sociali che si incroceranno nel lavoro dell’Assemblea Costituente per la fondazione di una Repubblica democratica che guardi alla migliore tradizione risorgimentale: quella mazziniana, quella laica e popolare, molto poco giacobina, ma indubbiamente figlia, oppure nipote, di un’onda lunga della Rivoluzione francese che lascia i suoi segni particolari nella Penisola.
Per quanto il 25 luglio sia importante come linea di demarcazione tra continuità del fascismo e caduta del medesimo, non si può dire che sia la data su cui far poggiare la nuova storia d’Italia, quella della Repubblica, quella dell’antifascismo. Probabilmente, senza i due anni di Salò, avrebbe potuto essere un 25 aprile ante litteram. Ma le contraddizioni evidenti erano molte, troppe: le compromissioni col fascismo tutte ancora tremendamente palesi. Nessuna via viene dedicata a Badoglio. Nessuna a Ciano o Grandi.
Il tentativo tardo di un certo fascismo di recuperare il consenso popolare non ha alcuno sbocco possibile: Badoglio è discontinuità nella continuità. “La camicia non era più nera, ma il fascismo restava il padron” scrive Nuto Revelli nei versi della “Badoglieide“. Il re affida il governo non ad un civile, ad un antifascista ma ad un militare che è “entrato in Addis Abeba alla testa delle truppe vittoriose“, che non è certo granché differente da Graziani in quanto ad autoritarismo e repressione del dissenso.
Il 25 luglio va celebrato come data di recupero di una certa forma di coscienza civile, per molti tratti segnata da un opportunismo che è frutto della paura del cambiamento repentino, della necessità di trovare l’appiglio cui aggrapparsi per non cadere definitivamente in disgrazia, per intuire “da che parte stare“. E’ una tentazione insopprimibile: mettere da parte le proprie idee, sacrificare la singola coscienza sull’altare non tanto della patria quanto del salvare la pelle e ingraziarsi i nuovi che arrivano, che occuperanno posti di potere e che sostituiranno il vecchio che muore.
Solo la Resistenza riscatterà anche queste ambiguità e costringerà tanti italiani a fare i conti sul serio con la propria intima coscienza civile, sociale, morale. L’occupazione nazista del Paese sarà la molla che farà saltare le incertezze e impedirà dubbi che sarebbero stati, fino a pochi mesi prima, considerati leciti nel marasma del capovolgimento di venti anni di dittatura in una guerra continua, con uno Stato allo sbando, diviso in due; un esercito privo di ordini, intere divisioni trucidate per essersi opposte all’ultimatum della consegna delle armi e dello schierarsi al fianco del Reich dopo l’8 settembre.
Cefalonia è una storia meno dimenticata di un tempo, ma pur sempre ampiamente sconosciuta e che invece, probabilmente, dopo l’armistizio, è la prima vera rivolta italiana contro i tedeschi. Non si può parlare ancora di Resistenza organizzata. Così come non si può parlare con il 25 luglio di una Italia non più fascista. Salò lo dimostrerà senza alcuna ombra di dubbio.
Proprio per questo quanto accadde in quell’estate del 1943 merita una particolare attenzione, uno studio sempre più meticoloso per evitare di ricadere anche oggi in facili innamoramenti di chi può apparire un liberatore e un pacificatore (nel nostro caso Vittorio Emanuele III e Badoglio) mentre altro non è se non l’ennesimo tradimento dell’aspirazione popolare ad una libertà dimenticata, rinchiusa nelle segrete di più di un regime dai molti volti, dalle molte mutazioni.
MARCO SFERINI
25 luglio 2020