La reazione dei giornali, delle televisioni e dei siti Internet occidentali alla vittoria di Vladimir Putin alle presidenziali russe è un po’ la prova del nove dei tanti preconcetti che si alternano a volte, si compenetrano altre, si sommano altre volte ancora, quando si tratta di fare paragoni tra le nostre democrazie cosiddette “liberali” e il resto del mondo.
La Russia è uno dei tanti esempi che si potrebbero fare per criticare una attitudine a mostrarsi come unici eredi di una grande storia plurimillenaria che, almeno da seicento anni a questa parte, ci avrebbe dato le chiavi del mondo in mano con le scoperte degli altri continenti, le loro esplorazioni, la dominazione europea del pianeta e l’imposizione di una morale superiore rispetto a tutte le altre culture autoctone.
Non è il caso qui di addentrarsi troppo nel passato, ma c’è tuttavia una necessità: quella di sapersi mettere in discussione e di essere sufficientemente autocritici quando ci si riferisce a mondi nel mondo che non sono precisamente il nostro limitrofo, la nostra Europa, la nostra Italia, il nostro tanto declamato modello occidentale. Che il regime di Putin sia un regime non c’è dubbio. La repressione di ogni manifestazione di dissenso è lì a dimostrarlo.
Tuttavia in Russia si svolgono elezioni che, almeno apparentemente, sono competizioni tra candidati: alcuni messi lì proprio per far apparire il tutto una regolare tornata di voto democratica, altri invece presenti come opposizione al leader, ma pur sempre legati ad un vincono stretto di nazionalismo con la propria patria. Dal nostro punto di vista, la democrazia è equilibrio e non uno strumento utilizzato da chi è al potere per mantenersi al potere.
Ma possiamo considerare democratici tutti i cambi di leggi elettorali cui abbiamo assistito in Italia da decenni a questa parte? Era democratico il conflitto di interessi mai risolto tra Berlusconi imprenditori e Berlusconi politico? Non lo era ma, si può giustamente osservare, proprio il fatto che il berlusconismo sia passato e che oggi ci sia il suo erede meloniano, è la dimostrazione che la democrazia in Italia c’è, perché nessuno mantiene il potere se viene sconfitto alle elezioni.
Il punto sta anche qui: in Italia c’è la possibilità per un partito di governo di essere scavalcato da un partito di opposizione e di fare così in modo, come vogliono le regole democratiche, che sia la volontà del popolo espressa nelle urne a stabilire chi debba guidare il Paese e non viceversa. In Russia, obiettivamente, non è così. Ed infatti, forse, i russi non pensano alla democrazia nei termini in cui pensiamo noi. In parte perché sono costretti a farlo, in parte perché si sono abituati a farlo.
Negli Stati Uniti d’America, la patria del liberalismo moderno e della democrazia fondata sui princìpi dell’Illuminismo, l’alternanza tra democratici e repubblicani garantisce il dibattito, la critica, la dialettica politica nella misura in cui si sta entro questi due perimetri storici dell’espressione della molteplicità di idee e di sfumature che li caratterizzano. Primarie, soglie di sbarramento, grandi elettori e conteggi di voti diversi da Stato a Stato, nonché, ovviamente, enormi finanziamenti da parte dei privati, fanno la differenza nella corsa alla Casa Bianca e nelle elezioni delle due camere.
Anche questa è democrazia, eppure a molti popoli del mondo sembra una bizzarria, uno strano modo di governare una delle più grandi nazioni. Divenuta tale per il rispetto dei diritti sociali, civili ed umani sulla carta più che nella realtà: la segregazione e il quasi-genocidio dei nativi americani, degli “indiani“, non dovrebbero essere comportamenti ascrivibili ai valori di una democrazia. Come neppure lo schiavitù dei neri.
Differentemente dai regimi che sono aprioristicamente autoritari, perché si fondano su costituzioni teocratiche, su cricche di uomini d’affari e di oligarchi che mantengono al potere il duce di turno, le democrazie occidentali hanno questa caratteristica: si lasciano permeare dagli indirizzi capitalistici scendendo a compromessi con le classi veramente dirigenti e potenti, che consentono una parvenza di libertà civile a patto di ottenere il controllo sociale ed economico di un paese.
Nell’epoca del multipolarismo ritrovato, dopo la parentesi lunga dell’unipolarismo seguito alla caduta del Muro di Berlino e dell’URSS, i valori democratici si sono, per così dire globalizzati nella misura in cui sono divenuti necessari al capitale per gestire nuove fette di mercati che si aprivano tanto ad Occidente quanto ad Oriente. Poco dopo i fatti del 1989, gli sconquassi in mezza Europa e la fine di un’era, la futura Unione Europea venne letteralmente invasa da uno stuolo di merci composte da orologi, vecchie divise e ninnoli di vario genere provenienti dall’ex impero sovietico.
Accanto a questo commercio apparentemente innocuo, si insinuava, col beneplacito delle nostre mafie locali, un altro mercato fatto di armi, di prostituzione dilagante, di sfruttamento della miseria dell’Est senza molti scrupoli da parte dell’Ovest. Si compiva così un rito propiziatorio di congiunzione tra due parti dell’Europa che, per mezzo secolo, si erano guardate in cagnesco, attraverso la NATO (che persiste tutt’oggi) e il Patto di Varsavia (che non persiste più).
La globalizzazione dei mercati trovava così la sua ragione d’essere, entrava nella sua moderna fase di maturità e poteva prendersi gioco anche di una parte del mondo che le era sfuggita (in parte) fino ad allora. E’ proprio in quel momento che la Russia conosce un approccio pseudo-democratico: con il padre politico di Putin, Boris Eltsin.
Dalla rivolta dei cosiddetti “comunisti conservatori” nel 1991, quando l’eccentrico futuro presidente salì su un carro armato per arringare la folla alla rivolta contro il golpe, fino alle dimissioni nel 1999, al mondo era sembrato che in Russia si potesse parlare, scrivere e votare liberamente. Ma era sufficiente questo a determinare delle condizioni esistenziali e sociali tali da rendere solida una giovane democrazia che aveva dietro lo spettro non del comunismo ma della sua rovina sotto il peso del capitalismo di Stato che era divenuto quel regime?
La diffusione della povertà negli anni della presidenza Eltsin non è soltanto un retaggio del disfacimento sovietico, un apparire delle macerie di quello che pareva un colosso inattaccabile e indistruttibile, almeno nella logica del bipolarismo da Guerra fredda. I primi anni di introduzione del libero mercato, del capitalismo, in Russia hanno determinato con ancora maggiore violenza l’impatto del liberismo fin dentro le crepe più grandi di una società a metà tra la collettivizzazione e l’individualismo esasperato di un egoismo ritrovato proprio tramite il rampantismo.
Non che le oligarchie non esistessero durante il regime sovietico, ma l’idea sociale permeava un po’ tutto, fingendo di essere, soprattutto alla fine degli anni ’80 del Novecento, ancora il collante di una alternativa popolare, di massa al resto del pianeta che era invece ispirato dalla logica del mercato a tutto tondo. Il putinismo è la soluzione a questo limbo in cui era finita al Russia eltsiniana, dopo il tentativo di Michail Gorbačëv di cercare una sorta di compromesso tra socialismo e democrazia.
Se la democrazia, quindi, non ha mai fatto veramente capolino nel grande paese dell’Est, non è a causa della malvagità di Putin che, con fasi alterne, governa il paese degli undici fusi orari da più di vent’anni. Putin è il prodotto di una compromissione tra reminiscenza del recente passato e voglia di un neoprotagonismo dalla chiarissima fisionomia imperialista. Nel senso più luxemburghiano del termine: espansione economica, coloniale.
Il processo di evoluzione liberista del capitale è un fatto storico tanto quanto il capitale stesso. Non è un accidente che si può inserire in una casella di a-storicità, provando a mostrare ai popoli che sono arrivati all’ultimo capitolo del progresso umano. E’ una tappa che, infatti, si determina in quanto tale anche attraverso i rivolgimenti europei e mondiali del dopo-1989/91, ma soprattutto con la diffusione dell’economia americana ed europea in quei settori in cui ancora non era potuta arrivare.
Vladimir Putin, ma pure tutti gli altri desposti di paesi molto poveri, come Afghanistan, Pakistan, dittature sudamericane, centroamericane e africane, asiatiche e sudasiatiche, sono una conseguenza di quella esportazione della democrazia attraverso non i valori del liberalismo e dell’Illuminismo sette-ottocentesco, ma degli stessi che oggi le nazioni che si ergono a simbolo di una morale superiore hanno coltivato e alimentato per decenni.
La guerra al terrorismo di matrice jihadista è stata una serie di conflitti che gli Stati Uniti e i loro alleati (Italia compresa) hanno dovuto affrontare perché, sostanzialmente, i loro nuovi amici moderni si erano presi troppo sul serio nel pensarsi indipendenti e stavano sfuggendo alla sfera di influenza di Washington.
Fino ad un certo punto della storia attuale, fino a che i rapporti di forza economici non lo hanno consentito, Mosca e Pechino sono rimaste a latere di tutto questo. Non a guardare, ma nemmeno impegnate in prima istanza nelle lotte contro il terrore tanto in Asia quanto in Medio Oriente o in Africa. Il lavoro di entrambi i giganti euro-asiatici è stato quello di infiltrarsi nelle singole nazioni che avevano sempre guardato alla sponda atlantica per dirigerle altrimenti verso altre sponde.
La Russia più militarmente, la Cina più economicamente, sono penetrate dentro l’anima dei conflitti regionali e hanno così creato le basi per un continuo arricchimento spostandosi da una struttura a capitale lavorativo ad una a capitale finanziario. Sostanzialmente è scomparso il monopolio americano su un mondo che diventava multipolare per una seconda volta nel giro di un secolo e mezzo.
Noi possiamo fare finta che tutto questo non sia causato anche dall’influenza perversa del capitalismo occidentale sul resto del pianeta. Possiamo immaginare una Terra in cui da una parte esistano i buoni, con tutte le loro imperfezioni e lacune, e dall’altra i cattivi, con tutte le loro immaginabili distinzioni tra buoni e meno buoni, tra cattivi e più cattivi, ma i semplificazionismi non aiutano a capire la portata dei fenomeni storici che stiamo vivendo.
Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha reso molto esplicite le intenzioni dell’Unione riguardo la guerra in Ucraina, con una frase non nuova ma che, detta in questo frangente, evidenzia benissimo le prospettive che la Commissione si dà al fianco degli Stati Uniti d’America e della NATO: «Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra».
La locuzione latina c’entra fino ad un certo punto. Perché qui si tratta di armare di tutto punto l’Europa, spendere ancora di più di quello che si è speso fino ad oggi in armamenti per fronteggiare una paventata aggressione russa al territorio comunitario. Polonia, Stati baltici e in parte Germania e Francia, sono tra i principali sostenitori di questa politica imperialista che viene tradotta per i popoli in “difesa della democrazia” e della “libertà dell’Ucraina“.
Ci può credere soltanto chi sposa una visione unipolare del mondo, tutta protesa ad un occidentalismo superiore per storia, per morale. Magari pure per diritto divino…
«Ma se Putin non avesse invaso l’Ucraina…». E se Zelens’kyj non avesse fatto bombardare il Donbass, facendo pure lui una politica di repressione delle maggioranze russofone dei due oblast al confine con l’orso putiniano? Se, se, se. Non si va da nessuna parte con le congiunzioni ipotetiche. La volontà bellica c’è da una parte e dall’altra, perché la sfida è nell’egemonia globale da un lato, nella ricostituzione di un impero dall’altro.
Valutare soltanto moralmente questa enorme complessità storica è fare torto ai fatti, all’intelligenza, ed utile soltanto alla propaganda della guerra per la guerra medesima. Sforzarsi di approfondire per schierarsi dalla parte della pace è l’unica buona politica civile, morale, sociale da fare in questo momento.
MARCO SFERINI
21 marzo 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria