Sui manifesti del Movimento 5 Stelle c’è una poltrona regale, tutta vellutata di rosso, intarsiata, degna di un salotto aristocratico in stile barocco, di qualche corte europea dell’epoca. Poi c’è una mano che traccia una riga divisoria. Il concetto insultante e fuorviante è “Meno poltrone, meno costi, meno burocrazia“. L’insulto sta nel considerare i seggi parlamentari come poltrone da pascià. Non tutte quante però…
Dall’inizio dell’avventura grillina, il piglio volutamente purista di una formazione politica presuntuosamente del popolo, per il popolo e con il popolo, che assumeva su di sé tutto il carico di una morale superiore fondata sulla assoluta indipendenza e distinzione rispetto a tutti gli altri partiti, creando addirittura un necessario nuovo linguaggia per sé e per gli altri (“cittadini” al posto di “onorevoli“, “movimento” al posto di “partito“, “né di destra né di sinistra“, “senza ideologia“, “ognuno vale uno“), quel piglio è stato la bussola di navigazione dall’opposizione a tutto e tutti.
Giuste le ragioni di disincanto rispetto ad una politica che aveva sommato decenni di corruzione ad altrettanti lustri di gestione antisociale delle risorse pubbliche, peggiorando sensibilmente le condizioni dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati e dei tanti milioni di cittadini costretti a sbarcare faticosamente il lunario, costretti ad impoverirsi sempre più mentre assistevano ad una sequela di autotutele dei privilegi di veri da parte della classe dirigente del Paese.
Ma la risposta del M5S delle origini, quello della contrapposizione senza se e senza ma alla politica fatta fino ad allora da centrodestra prima e centrosinistra poi (con annessi e connessi i vari governi tecnici succedutisi nelle intercapedini di tempo tra una coalizione e un’altra), si è andata affievolendo nonostante i proclami di immacolata concezione di un movimento i cui aderenti parevano non avere passato, nemmeno ideal-ideologico. Come se a crearne l’ossatura dei tanti meet-up locali del grillismo fossero stati cittadini senza macchia, senza paura e nati lì per lì, sul momento: creature aliene al contesto di vita sociale e politica in cui erano transitati come tutte e tutti noi.
Uomini e donne incorruttibili: tanti giovani con la speranza di assistere ad una rivoluzione che non si è mai verificata e che, anzi, ha aperto le porte ad una nuova stagione di un trasformismo che pareva non doversi più riscontrare nei palazzi istituzionali, abituati come ormai si era a singoli cambi di casacca. Non certo ad una capacità di adattamento così repentinamente trovata, scoperta e messa all’opera nel passaggio da una maggioranza con la peggiore destra sovranista ad un’altra con il PD e i suoi alleati.
Pur essendo perfettamente costituzionale come operazione, anzi dovendo quasi riscontrarvi l’eccellente ricorso alla riscoperta della formazione delle maggioranze in Parlamento e mediante il confronto tra le differenti forze politiche presenti nelle Camere, tuttavia il metodo pentastellato si è disvelato non già come virtuoso talento di rispetto della Carta bensì come interpretazione della medesima mediante una forzatura fatta proprio a sé stesso: prima archiviando il paletto del “mai allenaze con gli altri partiti”; poi mandando in soffitta un paletto che era anche un preciso veto, una consegna a tutte le organizzazioni locali del M5S: nessuna possibilità di dialogo (prima ancora di alleanza) con il PD.
Ed ecco che oggi, chi ha rinverdito il trasformismo italico del Regno in tempo di Repubblica, pretende di indurre i cittadini a pensare che il Parlamento sia un grande salottone, eccessivamente numeroso, dove le poltrone sono troppe e vanno tagliate per il bene del popolo che così sarà rappresentato da meno ladri, meno corrotti, meno scambisti del bene comune con l’interesse privato. Se anche per un attimo si potesse credere alla buona fede di chi ha pensato alla controriforma antidemocratica del taglio delle Camere, basterebbero delle semplici operazioni di logica prima di tutto razionale oltre che politica per smentire il castello di falsità che i propagandisti del SI’ vorrebbero spacciare come miglioramento del funzionamento delle istituzioni.
Può funzionare in una logica meccanicistica, facilmente falsabile, come quella sillogistica, se ipotizzassimo come premessa maggiore: “Ogni diminuzione del numero di deputati in un parlamento porta ad una riduzione dei disonesti, dei corrotti…“; e se formulassimo come premessa minore invece: “La riforma dei Cinquestelle è una diminuzione del numero dei deputati“, ne dovrebbe conseguire che: “La riforma dei Cinquestelle porta ad una riduzione dei disonesti, dei corrotti…“. Ne conseguirebbe che la sintesi è falsa poichè è falsa la premessa maggiore, ossia il semplce, evidente fatto che il rapporto tra un fenomeno quantitativo e uno qualitativo non è direttamente discendente, collegato e vicendevole nella reciproca risposta tra i due presupposti.
La logica ha il suo senso proprio se raffrontata con la realtà dei fatti e non con supposizioni arbitrarie elaborate per conservare o aumentare un consenso pericolosamente in disgrazia. Vogliamo fare un altro esempio? Eccolo. Adoperiamo sempre il metodo sillogistico. Premessa maggiore: “La diminuzione del numero di finestre di una stanza porta meno luce nella stanza stessa“. Logico. Premessa miniore: “La riforma dei Cinquestelle è una diminuzione del numero di finistre in una stanza“, quindi in sintesi “La riforma dei Cinquestelle porta meno luce nella stanza stessa“.
Ecco qui rovesciata la falsità in verità, qualora i Cinquestelle proponessero di oscurare parte delle vetrate del Parlamento invece che tagliarne i seggi. Siccome la premessa maggiore è vera, anche la sintesi lo è visto che si parla di quantità di finestre e di quantità di luce e il rapporto è diretto, qui sì perfettamente meccanicistico: i fattori sono eguali e non disarmonici. Parliamo di tanto per tanto, di poco per poco.
Invece nella illogicità che pervade la controriforma grillina si tenta di mettere sullo stesso asse di equilibrio ciò che ha un peso profondamente differente: la quantità e la qualità esprimono realtà molto diversificate nella quotidianità della vita, tanto delle singole persone quanto della popolazione italiana o delle istituzioni repubblicane.
Per questo le argomentazioni dei grillini e degli altri molto poco convinti della riforma vertono quasi esclusivamente sul taglio finalizzato alla paraltro irrisoria diminuzione dei costi: la famosa tazzina di caffè a persona in un singolo anno. Un euro, lo 0,007% della spesa pubblica italiana.
Provate a farci caso: i manifesti del NO argomentano le ragioni dell’opposizione alla riforma grillina. Quelli del SI’ invece si limitano alla raffigurazione della poltrona tagliata a metà, cercando di stimolare esclusivamente le reazioni demagogiche e retoriche di ciascuno sul costo della politica, ancora una volta rappresentanta come “pasticciaccio brutto“, nonostante adesso ne facciano appieno parte come nuova “casta” (chi di casta ferisce, di casta perisce…) se vogliamo usare i loro antichi metodi di delegittimazione della rappresentanza parlamentare.
Votare NO domenica 20 e lunedì 21 settembre vuol dire anche sconfiggere il tentativo di subordinare il Parlamento agli altri organi dello Stato, interrompendo una lenta (ma nemmeno poi tanto…) marcia verso un sistema oligarchico per la Repubblica; ma vuol soprattutto dire essersi accorti della trappola costruita sulla credulità popolare, sul considerare ciascuno di noi un perfetto sempliciotto cui si può raccontare qualunque cosa… intanto abboccano! Soprattutto se si ritengono così creduloni decine di milioni di italiani che invece, negli anni scorsi, hanno saputo – al di là degli schieramenti in campo – sconfiggere sempre i tentativi di sovvertire la Costituzione e con essa la democrazia imperfetta in cui viviamo.
Imperfetta, certo che sì. Ma pur sempre spazio di agibilità sociale, politica, morale e civile. Uno spazio che va preservato perché può sempre trovare chi lo interpreti molto meglio di come stanno facendo i Cinquestelle. E non solo in questo caso…
MARCO SFERINI
15 settembre 2020
foto di Marco Sferini