Quando, ormai due settimane fa, l’inchiesta di Report ha aperto il caso Daniela Santanchè, gli imbarazzi nella sua parte politica l’avevano fatta apparire quasi come una anomalia. Una svista cui porre riparo. Eppure, nel giro di pochi giorni, la ministra del turismo si è presentata come espressione purissima della cultura della maggioranza parlamentare di questo paese.

Lo rivendica, Santanchè, anche parlando in aula a Palazzo Madama. Lo fa in virtù della sua biografia politica, lei imprenditrice d’assalto berlusconiana passata alla destra estrema di Storace e poi accasatasi in Fratelli d’Italia grazie a un rapporto diretto, anche professionale, con l’avvocato Ignazio La Russa.

Santanché distillacon gusto quasi retro alcuni refrain del repertorio del berlusconismo, a partire dal vittimismo contro le inchieste giornalistiche e alla retorica della «cultura del fare» che fa tanto Publitalia anni Novanta.

«Oggi tocca a me, domani potrebbe capitare a qualsiasi cittadino politico non politico», dice puntando il dito contro la macchina del fango mediatica. «Ho avuto il coraggio di intraprendere – prosegue, e spesso inciampa sulle parole mentre legge – Solo chi fa può sbagliare». Ancora, a proposito delle accuse di aver spolpato da dentro le aziende: «Non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenga».

La Russa la osserva dallo scranno più alto e mastica il tappo di una penna. Lei lo menziona quando sostiene che «l’unico intervento professionale e amichevole dello studio legale La Russa» è servito a diffidare un socio di minoranza che aveva formulato delle richieste «irricevibili». E la storia della dipendente in Cassa integrazione Covid che sarebbe stata messa a lavorare?

Per Santanché tutto è stato sanato «senza che fosse pervenuta alcuna richiesta dagli enti preposti e prima della vicenda mediatica». Poi la conclusione, in un canovaccio quasi grottesco perché non ci si trova davanti il tycoon simbolo di un’epoca ma l’imprenditrice che fronteggia le istanze di fallimento. «Sono una persona felice – dice Santanché – Non odio il mondo, la mattina quando mi guardo allo specchio mi piaccio».

Quindi La Russa dà il via al dibattito. Antonio De Poli dell’Udc intona il ritornello e rievoca la storia dell’avviso di garanzia a Berlusconi (rieccolo) durante la conferenza internazionale sulla criminalità organizzata di Napoli nel 1994: «Non possiamo consentire che il parlamento si trasformi in aula giudiziaria».

Così faranno anche Fi, Lega e FdI. Il reboot delle destre funziona fino a un certo punto: gli anni passano e persino il M5S non cade nella trappola di inscenare il grand guignol manettaro. Tutte le opposizioni, in forme diverse, precisano che il tema non sono i procedimenti penali e tanto meno l’annunciato avviso di garanzia alla ministra. Per Alleanza Verdi Sinistra, Tino Magni prova a ribaltare la retorica classista di Santanché.

Le ricorda che gli imprenditori «si arricchiscono grazie ai dipendenti». «Lei mostra arroganza e disprezzo per le regole – dice Magni – Si dimetta, non può rappresentare la nazione». Stefano Patuanelli saluta una delegazione di ex dipendenti delle aziende di Santanché presenti in aula e attacca: «Non siamo in tribunale, ma valutiamo disciplina e onore con cui devono essere assolti gli incarichi pubblici. Lei in tv si scagliava contro un padre di famiglia che prendeva il reddito». E annuncia la mozione di sfiducia dei 5 Stelle.

Cosa che non convince il Pd. Antonio Misiani evidenzia fa capire che l’intento dei dem non è arrivare a una votazione (che vedrebbe la sfiducia individuale in minoranza) ma snocciolare nel tempo le contraddizioni. «Chiederemo ai ministri competenti Calderone, Urso e Giorgetti – spiega Misiani – Le dimissioni sarebbero segnalo di rispetto delle istituzioni».

Bisogna notare, per altro, che proprio i ministri investiti dalla vicenda (Urso, Giorgetti e anche Nordio) non sono seduti tra i banchi del governo accanto a Santanchè. In serata Elly Schlein fa la sintesi: «Se la mozione M5S arriva in aula la voteremo». Anche il capogruppo di Avs Peppe De Cristofaro non è entusiasta della mossa del M5S. «Diremo sì alla sfiducia – spiega – Ma avremmo preferito che se ne fosse discusso e si fosse fatto un percorso comune come forze di opposizione».

I renziani accusano i calendiani di voler assumere pose troppo grilline, ma il capogruppo in quota Iv Enrico Borghi non ci va tenero: sciorina tutti i casi in cui, per faccende molto minori, negli anni scorsi Meloni ha invocato le dimissioni del ministro di turno e poi chiede che la premier e la ministra del turismo traggano le riflessioni politiche del caso.

I 5 Stelle piazzano una conferenza stampa con Giuseppe Conte mentre l’aula si svuota. «Dopo essere stato eletto premier ho imparato che l’autorevolezza non te la regala nessuno – è il messaggio del leader M5S a Meloni: – E l’autorevolezza passa anche dal fatto che se hai un ministro in questa situazione altrove si sarebbe già dimesso».

GIULIANO SANTORO

da il manifesto.it

foto: screenshot tv