Uno stupro è prima di tutto una violenza, un vilipendio fisico e morale di una persona. Chiunque essa sia. È una condanna prima per la vittima che per lo stupratore: il processo interiore di autocondanna, innescato dal senso di colpa per non aver saputo fronteggiare quella violenza, è ciò che di più ingiusto ci si può infliggere per continuare a vivere, per superare magari la tentazione di uscire da una vita che si sente non più propria.
Lacerata, strappata, offesa fin dentro la più nuda intimità dell’animo, dei sentimenti. Lo stupro poi, solo poi, è anche un gravissimo reato. Non c’è attenuante che tenga: ubriachezza, tempo che intercorre tra il fatto e la denuncia… Nulla può lenire quella colpa che non è tale, nulla può anche lontanamente giustificare lo stupro.
Ogni minimizzazione è corresponsabilità diretta o indiretta. È un tentativo di depistaggio dell’opinione pubblica che non sempre si fa addomesticare. Nemmeno davanti ad un ex tribuno delle folle che di prove di incoerenza ne ha già date tante. Una in più, si dirà, non fa differenza. Ed invece la fa, eccome: perché non tutti hanno un padre che è personaggio pubblico televisivo e teatrale oltre ad essere una specie di leader politico.
Chi ha sempre invocato la giustizia a tutti i costi e con le più pesanti manette, oggi si trova a tuonare contro procuratori, giudici, avvocati, giornalisti. Tutti brutto, sporchi e cattivi. Ma, prima di tutto, l’invettiva è contro una ragazza a cui non viene dato lo stesso beneficio di garantismo che si pretende per il proprio figlio.
Urlando a squarciagola non si fa un favore a nessuno: si mostra solamente di essere – seppure involontariamente – un pessimo, davvero pessimo avvocato della propria posterità…
(m.s.)
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