I ragazzi e le ragazze di oggi, fatte tutte le debite eccezioni temporali del caso, in Italia sicuramente, in Francia non è dato sapere con precisione…, frequentano scuole un po’ simili a quelle dei loro coetanei d’oltralpe durante la Rivoluzione del 1789.
Nell’anno III della Repubblica questi giovani proletari che scorrazzano per le vie della capitale, per quelle delle grandi città della Patria restituita al suo alto valore di eguaglianza sociale e civile, e per le campagne dove il lavoro è tanto duro quanto negli stabilimenti tessili aperti dal governo per far fronte alla crisi economica, siedono in aule strette, sovente sovraffollate.
Un po’ come capita anche ai nostri giorni. Con la differenza che oggi il valore pubblico, gratuito e universale dell’istruzione si sta sempre più avvilendo, svilito scientemente da una cultura del privato, della ricchezza nazionale che proviene non tanto dal lavoro quanto dall’impresa. La Repubblica francese appena nata, che ha affrontato l’attacco della prima coalizione, che ha resistito all’invasione prussiana e a tanti tentativi di sbarco sulle sue coste da parte degli inglesi, che ha preso in mano un vecchio mondo medievale per capovolgerlo, mette tra i suoi obiettivi principali proprio l’istruzione.
Una istruzione che non riguarda solo i fanciulli. L’analfabetismo è diffusissimo e la maggior parte di chi non sa né leggere né scrivere, né tanto meno far di conto, non accede al voto nemmeno col suffragio universale maschile introdotto dal processo rivoluzionario. La scuola, quindi, come diritto elementare e fondante una nuova società, è una prerogativa imprescindibile tanto per i figli quanto per i padri e le madri.
Un bellissimo capitolo VIII dello studio di Jean -Paul Bertaud, “La vita quotidiana in Francia al tempo della Rivoluzione” (edito da Rizzoli nella BUR, nell’oramai lontano 1988) ci introduce a questo straordinario aspetto misconosciuto della “scuola repubblicana“, del cambiamento radicale nella formazione individuale e collettiva dei giovani cittadini mentre fuori la tempesta imperversa ancora e non accenna a diminuire.
Il libro fa parte di una collezione che allora Rizzoli diede alle stampe per mostrare gli aspetti meno conosciuti della storia dei popoli: si studia la quotidianità della vita primitiva, si fa cenno agli usi e costumi dell’antica Roma o della rigidità legalistica spartana, alla democrazia ateniese, alla povertà medievale e alla vita nei conventi e nelle abazzie, e magari si parla anche di come i sanculotti vivevano prima, durante e dopo la Rivoluzione, ma di tutta la storia dell’umanità si finisce col conoscere sempre molto poco ogni momento particolare.
Eppure per capire gli eventi che si sono susseguiti nel tempo, è certamente utile anche provare a comprendere come si pensava, come si parlava, cosa si leggeva, di cosa si discuteva tanto al tempo di Giulio Cesare quanto a quello di Robespierre e Danton.
Non ci sono solamente gli studenti che vanno al mattino a riempire le scuole della République. Ci sono i fornai che impastano, che si lamentano del prezzo della farina, che fanno incetta di grano. Se tutto il mondo è paese, allora anche ogni tempo è un po’ il proprio tempo: nella Parigi dei primi fuochi rivoluzionari ci sono panettieri che approfittano del veloce susseguirsi dei cambiamenti. Pensano di arricchirsi facilmente sulle spalle della poverissima gente.
Altri, invece, aprono i loro forni al popolo: nascono delle specie di cooperative sociali dove i mestieri vengono condivisi, dove la ricchezza subisce una prima trasformazione, provando a diventare collettiva. Si tratterà di episodi, perché la borghesia rivoluzionaria rimarrà, comunque, soprattutto dopo la caduta dei giacobini e la reazione termidoriana, una classe con precisi punti di riferimento economico a tutela di nuovi privilegi che si stabiliranno in virtù dell’esclusione dei vecchi assetti e disequilibri aristocratici.
Non si ha idea di quanti documenti ci siano rimasti per ripercorrere la vita quotidiana di ogni popolo e in (quasi) ogni tempo si voglia provare a viaggiare con la straordinaria macchina della ricerca storica. Grazie a questa mole di frammenti che vengono unificati e intersecati, paragonati e messi a confronto per trovare conferme su questo o quel dato, sappiamo, per esempio, che a Poitiers un delegato della municipalità chiese 30 livres di aiuti per sostenere i poveri, vittime di un aumento dei prezzi che ci appare familiare soprattutto oggi…
Se giriamo per le vie di Parigi, i lumi accesi per la notte creano le ombre dei passanti che aprono pesanti portoni: entrano nei club rivoluzionari. Per discutere, per partecipare ai dibattiti del tempo: c’è la fame, c’è la rivolta vandeana, c’è la guerra. La Repubblica è nella barca della Rivoluzione e la barca non è ancora approdata al suo ultimo porto.
Robespierre dalla tribuna della Convenzione richiama al senso di responsabilità, alla fondazione di una nuova etica, di un nuovo mondo che sembra a portata di mano e che, alla fine, sfuggirà sempre per un soffio, per un intrigo, per una lotta fratricida fra gli artefici del grande rivolgimento statale, politico e sociale. Nel nome non tanto del potere, quando della purezza di ideali da far sposare alla concretezza delle riforme.
Mentre il giovane studente va a scuola, il panettiere impasta nel suo forno e si discute nei club, i giornalisti stanno curvi sui loro tavolini – scrittorio: vergano pagine articoli, descrivono ogni giorno quello che accade. C’è al cronaca politica, c’è il resoconto dei prezzi, c’è qualche notizia dall’estero. Soprattutto dall’Inghilterra e dal Sacro Romano Impero. E poi ci sono giornali che non parlano soltanto di chiamata alla coscrizione obbligatoria o delle decisioni del Comitato di Salute Pubblica.
C’è spazio per il divertimento e per la spensieratezza anche in un passaggio così cruento della storia di un intero popolo. L’istruzione aumenta, si vendono più giornali e si stampano molti manifesti. La gente inizia ad imparare a leggere proprio da quello che vede scritto sui muri di Parigi, Lione, Marsiglia, Bordeaux. A volte sono proprio i proclami del governo i primi abbecedari di tanti cittadini.
Le “Cronique de Paris” strilla in prima pagina il 22 gennaio 1791: «Una banda di ladri scoperta!». Sono quei “sensazionalismi” che un certo pubblico di lettori attende per distrarsi un attimo dalla tormenta, dal turbinare di eventi che sconvolgono ogni giorno l’intero paese.
E, capita, mentre si sfoglia un libello per le strade, di imbattersi in due giovani sposi che sono convolati a nozze in un municipio laico, dove le divinità vengono assolutamente dopo la Patria, dopo la Nazione, dopo il Popolo che ha ispirato, voluto e creato la Rivoluzione. Il tutto a lettere maiuscole, perché l’antonomasia si addice a questi concetti vecchi e nuovi al tempo stesso: esistevano anche nell’Ancien Régime ma avevano connotazioni, per l’appunto, pre-rivoluzionarie e, quindi, praticamente opposte a quelle dell’anno II della Repubblica.
L’anno in cui i nostri sposi si scambiano la promessa di vivere per sempre insieme.
Ma la modernità del processo di evoluzione civile e sociale, dell’uomo e del cittadino, porta con sé tutta una serie di novità che riguardano, oltre alla politica interna, estera e alle questioni economiche, anche quelle più strettamente quotidiane: dal 1789 – scrive Bertaud – «…parlare di matrimonio significa anche parlare di divorzio. Nelle centinaia di pamphlets che contrastano con il silenzio dei cahiers de doléances intorno ai progetti di riforma del matrimonio, molti autori affermano che la richiesta dell’inquadramento nell’esercito di Cupido deve andare di pari passo con la possibilità di disertarne».
La Rivoluzione, del resto, se deve essere un totale cambiamento del mondo non può esimersi dall’esserlo veramente fin dalle fondamenta, fin dalle origini di una stratificazione di culture e prevenzioni religiose, ideologico-politiche, civili e morali che hanno uniformato la vita di tutte e di tutti fino ad un attimo prima della presa della Bastiglia. Così, Costituzione civile del Clero a parte, il matrimonio nella nuova Repubblica è un “contratto civile” ed una “associazione commerciale” allo stesso tempo.
Il culto dell’Essere Supremo, voluto da Robespierre per combattere quell’ateismo che l’Incorruttibile giudicava dannoso per la stabilità emotiva singolare degli individui e per la coesione morale del popolo intero, è la nuova religione che si festeggia all’ombra degli alberi della libertà. Ne vengono piantati in tutta la Francia, mentre le armate della Convenzione stringono d’assedio le città vandeane, mentre i commissari del Comitato di Salute Pubblica ristabiliscono l’ordine nelle città ribelli come Lione e mentre si iniziano ad affermare valorosi giovani generali…
La vita quotidiana in Francia al tempo della Rivoluzione è tutto questo. E’ l’affermarsi della Costituzione, dei Diritti dell’uomo e del cittadino, del nuovo corso per il clero, di una borghesia moderna che, alla fine, prevarrà sulle fazioni tanto moderate quanto estremiste e sul tentativo giacobino di dare alla Rivoluzione un approdo sicuro, una naturale e giusta conclusione. Ma, nonostante la sconfitta di Robespierre e dei suoi partigiani, la Francia, l’Europa e il mondo non saranno più gli stessi da allora.
In questo senso la parola Rivoluzione merita davvero la maiuscola dettata dalla sacralità di una antonomasia che, mai come in questo caso, si è realizzata con tanto vigore, con tanta forza, con una così grande voglia di giustizia civile e sociale.
LA VITA QUOTIDIANA IN FRANCIA AI TEMPI DELLA RIVOLUZIONE
JEAN-PAUL BERTAUD
RIZZOLI, BUR (edizione 1988)
DISPONIBILE SU VARI SITI
MARCO SFERINI
3 agosto 2022
foto: particolare della copertina del libro