Un articolo dell’ex-segretario della FIM-CISL Marco Bentivogli (la Repubblica, 14 settembre) pone finalmente in rilievo un tema praticamente abbandonato nelle more della crisi e nella confusione che regna sovrana a livello di governo.
Nel frangente Bentivogli solleva la questione dell’ILVA, denunciandone la sparizione del tema dal dibattito pubblico e allarga il tiro sollevando alcuni punti di grande interesse:
- questo paese sta accettando come “normale” 5 anni di cassa integrazione e il totale silenzio sulla vicenda non solo della siderurgia ma dell’intero comparto industriale per non disturbare le elezioni regionali;
- in queste condizioni importare acciaio e tenere i lavoratori in cassa integrazione è una vergogna;
- l’Italia ha il 52% dell’export dal settore metalmeccanico, di cui il pezzo più grosso è fatto di meccanica strumentale, e subordina le politiche industriali alle elezioni regionali. In questo modo non si comprende bene come il tema dello sviluppo industriale sia obliato nel quadro dei presunti progetti di rilancio dedicati al programma europeo relativo all’emergenza sanitaria;
- va bene mettere assieme tutti i progetti su green e digitale ma non si può mettere in secondo piano l’idea del rilancio sostenibile della siderurgia, così come l’elaborazione di un piano complessivo di rilancio industriale;
- i progetti riguardanti le infrastrutture, proprio in relazione al già citato discorso europeo, debbono essere legati prioritariamente alla prospettiva di sviluppo industriale e non far parte di progetti gonfiati semplicemente da propositi di gigantismo propagandistico.
C’è un virus che non abbandona il corpo cronicamente debilitato dell’economia italiana: l’Italia è un paese senza progetto. Vale allora la pena ritornare su questi (decisivi) argomenti con alcune osservazioni.
La situazione italiana può essere, ancora una volta schematizzata in relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti. Si tratta di argomentazioni già sostenute in varie sedi ma mai come in questo caso “repetita juvant”.
Il punto di partenza non può che essere quello degli anni’70:la fase di avvio dello “scambio politico”, attraverso l’operazione “privatizzazioni” realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.
Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’IRI trasformata in SPA.
L’esito più grave della fase dello “scambio politico” infatti, si realizzò in una condizione di totale dismissione del sistema delle partecipazioni statali (IRI messa in liquidazione il 27 giugno 2000), mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:
- l’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
- la perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;
- a fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
- si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, ferrovie autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
Sono questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da bere” fino ad oggi.
Concetti di programmazione e intervento pubblico affrontati in maniera assolutamente confusa da questo governo in un’ottica che lo stesso articolo di Bentivogli definisce felicemente come “keynesisimo a fumetti”…
Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato ed evidentemente continuano a pesare in maniera esiziale sulle prospettive dell’economia italiana.
FRANCO ASTENGO
16 settembre 2020