Una nota storiella cinquecentesca racconta che l’abate Martino pensò di salutare gli ospiti del suo monastero con un bel cartello: Porta patens esto. Nulli claudatur honesto, cioè «La porta resti aperta. Non sia chiusa a nessun uomo onesto». Tuttavia per un attimo di distrazione, minima e fatale, l’incisore scolpì: Porta patens esto nulli. Claudatur honesto, cioè «La porta non resti aperta per nessuno. Sia chiusa all’uomo onesto». Il papa, infuriato per quel punto fuori posto, che rovesciava il senso dell’accoglienza cristiana, tolse a Martino la cappa di abate. E colui che ne prese il posto, perfidamente spiritoso, fece scrivere: Uno pro puncto caruit Martinus Asello, ossia «Per un solo punto Martino perse Asello».
Dell’errata disposizione della virgola, invece, nessuno sembra preoccuparsi molto. Il danno appare assai più lieve, perché la modesta, timida virgola non è imperativa, non sancisce una condanna, ma lascia sempre aperta una potenzialità. È una finestra socchiusa verso l’oltre, non una siepe che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Però la scabra verghetta (questo significa virgula in latino: «piccola virga, bastoncino») ha una sua logica forte, persino prepotente, che richiede uno studio e un’applicazione ormai sempre più sfilacciati, sentiti quasi come un vezzo inutile, un’esagerazione da parrucconi.
Secoli di vita
Eppure, quando si dice «rimettere a posto le virgole in un testo» si intende «passarlo al setaccio», «valutarlo nei dettagli». Chi sa «usare le virgole» è padrone del suo pensiero e del testo che ne deriva; conosce il ritmo del respiro mentale e stilistico; diffida della semina di virgole che molti compiono a fine scrittura, lanciando piccoli gambi di fiorellini appassiti sulla pagina costellata di parole: cadano dove vogliono, tra i rovi e i sassi, o nella terra feconda…
Scomparso il punto e virgola, di cui illustri linguisti hanno pronunciato il necrologio, notando come ormai serva solo, sui cellulari, a realizzare gli occhiolini sorridenti degli emoticon, non ci rimane che la coppia, ormai antica e canuta, del Signor Punto Fermo (.), panciuto e ultimativo, e della Signora Virgola (,), tenera e vezzosa, tremolante e insicura, sempre lì a chiedere «che fare» al suo compagno solenne e certissimo di sé.
Hanno secoli di vita, e sono nati insieme. Francesco Novati dimostrò che fra il VII e l’VIII secolo, con l’introduzione dei caratteri minuscoli nei manoscritti, si cominciò a indicare la distinctio suspensiva con un punto seguito da un apice (.’); fu Boccaccio, nel suo autografo Hamiltoniano, a tracciar virgole con una barretta (/) e poi con l’attuale virgola (,), quasi piegata dall’energia della mano che scrive.
Poiché sto cantando le lodi della virgola, vorrei darle prestigio ricordando un caso degno della tragedia greca, proprio per l’ambiguità che si cela in questo segno impalpabile: infatti l’aneddoto è attribuito alla sapienza sibillina, che non «chiude» mai un significato, ma «accenna». È la celebre sentenza riportata da un cronista medioevale, Alberico delle Tre Fontane: a qualcuno venuto a domandarle quale sarebbe stata la sua sorte in battaglia, la Sibilla rispose a voce una frase che, nella trascrizione, imponeva proprio una virgola, un breve soffio di silenzio, una pausa di fiato, una freccetta capace di orientare il senso nella direzione fortunata o invece in quella funesta.
Due significati opposti
Ibis redibis non morieris in bello, disse la Sibilla. Bastava collocare una virgola prima o dopo il «non» per ottenere due significati opposti: Ibis redibis, non morieris in bello, ossia «Andrai e ritornerai, non morirai in guerra»; oppure Ibis redibis non, morieris in bello, ovvero «Andrai e non ritornerai, morrai in guerra». Da allora quando si vuole alludere a un problema insolubile si dice: «questo è un ibis redibis».
Bice Garavelli Mortara, nel 2003, pubblicò per Laterza un Prontuario di punteggiatura, che nel 2008 si ampliò fino a diventare, con diversi collaboratori, un’imponente Storia della punteggiatura in Europa. Nel 2018, con Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Leonardo Giovanni Luccone ha eretto un monumento leggero e ironico al segno più fragile, più volatile, asticella che ruota troppo spesso al vento dell’ispirazione, e ha offerto una serie notevole di esemplificazioni, a partire dall’uso mirabile che della virgola seppe fare Manzoni.
Un capolavoro assoluto di ritmica virgolesca è la descrizione della vigna di Renzo, nel capitolo XXXIII dei Promessi Sposi, vera mise en abyme della macchina testuale, scandita da pause di lettura che corrispondono al batter d’occhio, al muoversi d’uno sguardo quasi cinematografico nel puro caos delle parole-erbacce: «Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro ; una confusione di foglie, di frutti. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche».
Da Manzoni a Gadda
Qualcosa del genere si legge anche al ritorno a casa di don Abbondio e della Perpetua, teatro del guazzabuglio della vita e della scrittura (infatti sul finale compare chiara la metafora del testo): «avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo».
Come vide acutamente Gian Carlo Roscioni, questa pagina ispirò a Gadda, nella Meccanica, una delle più straordinarie figure della tessitura testuale, in cui l’esercizio manzoniano della virgola legata alla metafora della scrittura giunge all’apice: «Il frugare in una scatola di legno piallato e sudicio, a scomparti, che contenesse viti e madreviti usate, bulloni unti, lamette di rasoio, candele scompagnate, chiodi di scarpe da montagna frusti mescolati con matassine di trecciuola di rame, pezzi di cordoncino isolato o anche malamente scabbioso, qualche bottone di madreperla, qualche fondo vetrato di scatola di fiammiferi, qualche penna di pollo rotta in due, per untare, e qualche spazzolino da denti consunto, destinato in vecchiaia alle candele e a’ magneti, il frugare pazientemente in questo repertorio gli dava ore fuggevoli, liete di quella serenità e di quel medesimo oblìo…».
La virgola è appunto lo strumento necessario al repertorio, al catalogo. Basti rileggere l’innumerevole elenco di nomi degli Angeli benevoli e malevoli che Umberto Eco accumulò nel Vortice della lista (2009). Senza le virgole, corrispondenti al numero degli angeli meno uno (l’ultimo), la loro schiera sarebbe una massa caotica, priva di distinzioni e di raccordi. Un universo impenetrabile, ossessivamente zeppo. La virgola separa e unisce parole e immagini, oggetti e idee, e li distribuisce in un teatro della memoria che si compie nella mente e si edifica sulla pagina. Questa piuma segnaletica indirizza a sciogliere i nodi del senso con un tic-toc da lento metrònomo, con un ritmo variabile, a seconda di dove si collochi la barrettina nella parte inferiore delle lettere, sulla riga: non a caso, forse, la virgola ha una forma molto simile a quella della chiave di basso in musica.
Sul precipizio del bianco Le maestre, al tempo in cui Berta filava, insegnavano che «prima del ma occorre sempre una virgola». Per tutta la vita mi sono adattato a questo ordine irrevocabile, onorando la Virgola che con graziosa prudenza rallenta l’accostamento all’alterità. Vorrei scrivere, un giorno, una Breve storia del «ma», anche insistendo su una notevolissima variante a questa regola imparata alle elementari. E metterei in luce, allora, alcuni «ma» non preceduti da una virgola, bensì, con aumento esponenziale del valore semantico, da un punto fermo.
Chiudo con una virgola, quella aperta sul precipizio del bianco dall’intestazione di ogni lettera, la più intensa tra le forme della comunicazione inventata dall’animale umano per legarsi a un altro da sé a distanza di spazio e di tempo: soglia vibrante fra la voce di chi scrive e l’ascolto di chi riceve il messaggio. Nella lettera un a capo segue alla virgola di Caro amico,: è lo spazio in cui, dopo quel sospiro inavvertito, quella pausa di sospensione colma di attesa che suggella la chiamata, la realtà torna a farsi racconto e il tempo della vita si offre al Nome dell’assente, piena di «cose» tradotte in «parole».
CORRADO BOLOGNA
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