La violenza politica non è mai un fatto isolato, astraibile dal contesto complessivo della vita sociale di tutte e tutti noi. Anzi, la violenza politica è l’ultimo, più avanzato stadio di un miscuglio di rancori e di odi che sono composti da risentimenti fatti di paure alimentate tanto da forze politiche preposte a questo scopo quanto da organi di informazione che si incaricano di determinare il “senso comune”, la cosiddetta “opinione pubblica” dirigendola su livelli di elaborazione dell’esistente che ci circonda secondo categorie predeterminate intrise di luoghi comuni e di quelle banalità fatte di quel vuoto tanto caro a chi sa riempirlo con le peggiori alterazioni dei fatti.
E’ un fatto che oggi l’odio, manifesta espressione di un senso di respingimento del diverso da noi, si manifesti per molteplici fattori: paura della perdita del posto di lavoro; paura di ciò che non conosciamo bene; paura del terrorismo; paura delle guerre e delle cosiddette “invasioni” da parte dei migranti.
E ognuna di queste paure, che possiamo tranquillamente elevare al grado di “fobie antisociali”, diventa irrazionale davanti ai fatti, alle cifre che si possono sciorinare ennesimamente dimostrando che i posti di lavoro per gli italiani non diminuiscono a causa dei migranti bensì per la rimodulazione contrattualistica operata dalle politiche liberiste dei governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni: ormai da molto tempo, dal contratto a tempo indeterminato e dalle tutele della reintegra sostenute nell’articolo 18 (abolito non dai migranti ma dai governi del cosiddetto “centrosinistra”) si è transitati ad una instabilità lavorativa che ha fondato le nuove occupazioni sulla pietra angolare del precariato diffuso, del lavoro a chiamata, della vera e propria schiavizzazione delle giovani generazioni sfruttate nei call-center e ovunque sia possibile con paghe vergognose: chi si ricorda ancora della triste vicenda dei “voucher”? Praticamente sette euro all’ora per poche ore di lavoro al giorno.
Va bene “lavorare meno, lavorare tutti” e a parità di salario, ma per i liberisti “lavorare meno” vuol dire fondamentalmente meno garanzie e meno diritti.
I migranti, dunque, non hanno alcun ruolo nel depotenziamento dello stato-sociale che un tempo esisteva ed oggi è la quintessenza dell’aere. Pur tuttavia, le destre sovraniste e fasciste insistono sulla sottrazione del lavoro da parte di coloro che giungono in Italia provando a dimostrare ciò con slogan come “Prima gli italiani”.
E sulla base di ciò vorrebbero anche dimostrare d’essere forze sociali, che si preoccupano dei ceti più deboli. Ma non esiste slogan più beceramente falso e ipocrita se si intende affermare un diritto di prelazione per il lavoro perché è una proclamazione assoluta di interclassismo.
Italiani sono tanto Sergio Marchionne quanto l’operaio della Embraco che a fine marzo sarà in mezzo ad una strada perché non la “sua” azienda (come si potrebbe pensare di scrivere impropriamente), bensì la dirigenza padronale dell’azienda per cui presta il suo lavoro ha deciso di delocalizzare in Slovacchia.
Qualcuno vuole provare a dare anche la colpa delle delocalizzazioni e dei licenziamenti che ne conseguono ai migranti? Qualcuno vuole spargere altro odio in tal senso sfruttando le paure dei più deboli, di coloro che non arrivano a fine mese o di coloro che giornalmente fanno fatica a mettere insieme pranzo e cena?
Certo che qualcuno proverà a dirlo e saranno proprio quelli che si fingeranno paladini della Nazione, intripidi difensori del primato italico su tutto e tutti.
Quindi, evitando i fatti, la verità concreta che potrebbe essere sotto l’occhio di tutti, la propaganda di odio si fa strada e porta la politica ad un livello di scontro che è, come si può ben osservare, livello di scontro prima di tutto antisociale: una guerra tra poveri che è utile al capitalismo e ai padroni per creare quel sottobosco di incertezze dove possono sguazzare beatamente le anime brutte e nere dei neofascisti e dei neonazisti.
Chi spara per strada ai “negri”, chi fa il saluto romano mentre si fanno i volantinaggi, chi accoltella i compagni di Potere al Popolo! a Perugia mentre attaccano i manifesti della lista.
Poi accendi la televisione, guardi Porta a Porta e ti capita di vedere un personaggio che non si dichiara apertamente fascista ma che denuncia un “clima di odio”, “da anni di piombo” e dice che istintivamente lui saprebbe come agire, come rifarsi per tutto questo antifascismo che, nonostante tutto, esiste ancora e manifesta e si ritrova nelle vie e nelle piazze d’Italia per rivendicare la piena applicazione dei princìpi costituzionali che vietano “la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista”.
Ti capita di vederlo e ascoltarlo e di provare magari rabbia per l’ipocrisia e la menzogna che è poi il tratto distintivo di ogni movimento di destra estrema a partire dal fascismo degli anni ’20, passando per i più grandi bugiardi e mistificatori dell’attualità e della storia: i nazisti.
Ti capita di provare rabbia, ma sarebbe inutile, dannoso e fuorviante farsi trascinare sul terreno dell’odio. Dobbiamo sfuggire a questa tentazione e invece andare palesemente controcorrente. Dobbiamo fare campagna elettorale, proporre le nostre idee con la rivoluzione della gentilezza senza che questa diventi ruffianeria. Dobbiamo essere gentili ma fermi nel dire che non accettiamo insulti, non accettiamo violenze di alcun tipo: verbali e tanto meno fisiche.
Non possiamo stare in silenzio davanti alla maleducazione che è già una certa forma di violenza. Morale, prima di tutto, perché diventa un diritto unilaterale per chi vuole usare il disprezzo come arma di una finta dialettica, di un rapporto sociale che è invece l’esatto opposto del confronto anche momentaneo, fatto di poche parole per strada.
Questo non è un invito “ad abbassare i toni”. E’ un invito a non usare proprio i toni di chi vorrebbe abbruttire il Paese aggiungendo alla crisi economica e sociale che dilaga anche una rabbia priva di quel necessario ritorno al classismo che ci salva da slogan tipo “Prima gli italiani” e che può rimettere in essere invece lo slogan “Prima chi ha bisogno”.
Che senso mai avrebbe favorire prima un italiano che non ha bisogno o un non italiano che non ha bisogno? Nessuno. Nemmeno per l’economia propriamente “politica”.
Eppure, istintivamente, quindi senza un briciolo di razionalità e di coscienza sociale e critica politica, siccome ci riconosciamo nella nostra italianità, siccome ci sentiamo esseri umani noi e consideriamo gli altri meno esseri umani rispetto a noi, quelle parole d’ordine così autoctone, autarchiche (e autoritarie), da discriminatorie diventano un programma politico celebrato e acclamato.
L’odio politico, dunque, nasce anche da qui. Nasce da una molto poco consapevole conoscenza dei fatti sia dell’Italia sia del mondo che la circonda.
L’approssimazione, il superficialismo e la più vuota banalità del male sono seducenti perché vivono dell’immediatezza e non hanno bisogno di essere spiegati.
Molto più complesso è rubare un po’ di tempo ai cittadini, ai moderni proletari, a tutti gli sfruttati che non sanno magari d’esserlo, per spiegare loro, dati alla mano, che chi ci ruba il lavoro non sono i poveri come noi ma i ricchi.
Chi ci sfrutta non sono i migranti ma i padroni. In fondo ciò che manca è quella solidarietà che nasce spontaneamente da un ottimo senso comune: un senso critico, quello che fa riconoscere il proprio avversario di classe nel momento in cui ci si rende conto di appartenere ad una classe.
Ma se da decenni siamo abituati a sentirci solo “cittadini” senza alcuna attribuzione sociale a questo termine, allora è del tutto evidente che la sola cittadinanza ci rende tutti uguali in una disuguaglianza che scema nella sua manifestazione più eclatante: chi si arricchisce smisuratamente e chi, a fine marzo, alla Embraco sarà senza lavoro nella “sua” fabbrica.
MARCO SFERINI
21 febbraio 2018
foto tratta da Pixabay