Ho provato a cercare una via di uscita dopo che ho notato che tutto intorno a me pareva avere i tratti della finzione e ogni tanto cedeva al passo della réclame di mercato.
Mi sembrava di vedere spot pubblicitari un po’ ovunque, fuori dai cartelloni e dalle televisioni. Dentro la realtà. E la realtà era quella che vivevo e che percepivo come vera, concreta, quotidiana nel suo svolgersi quasi sempre uguale, ritualmente identica a sé stessa.
Mi sembrava di essere normalmente normale, uguale e diverso al tempo stesso rispetto ai miei simili. Non vedevo nessuna stranezza, alcuna stramberia nell’incontrare un cane, accarezzarlo o nel sede su una panchina a rimirare il mare e a compilare parole crociate, rebus, enigmi di ogni genere.
Ogni tanto passava un ciclista dai muscoli ben torniti, a volte guardava lo strano zombie lì seduto sotto una quercia a leggere, come se avesse incontrato un extraterrestre; altre volte tirava dritto, fendendo con la punta del naso e del casco il vento che magari spirava un poco più impetuoso del solito.
In certi pomeriggi passava solitamente una signora anziana alle mie spalle: a volte accompagnata da amiche della medesima età. Parlottavano del più e del meno: frasi magari banali, ma era un piacevole ascolto, tenero, fatto di rughe frutto del tempo e di spalle curve frutto del peso della vita.
Altre volte la simpatica donnetta era sola e allora si fermava a scambiare quattro parole con me, all’ombra della quercia, mentre il ciclista dai muscoli torniti passava dietro noi, sulla strada insieme a qualche automobile che sembrava capitata lì per caso.
Due chiacchiere sulla meraviglia del paesaggio, sull’infinità del mare e lo stupore del e per il mondo: c’era qualcosa di pasoliniano in tutto questo. Fermarsi a guardare ciò che dovrebbe essere immodificabile per le capacità umane e che, invece, potentemente unite dalle forze del mercato e dalla spinta del profitto, riescono ad essere nocive alla grande unità della natura, al corpo pulsante e vivo della terra.
Ogni tanto interveniva qualche elemento esterno a far sembrare tutto vero: qualche nuova comparsa. Un distinto signore con cagnolino minuto appresso, un cinghiale uscito repentinamente dalla brughiera e sgambettante nelle ghiande cadute dalla quercia…
La rottura della monotonia era l’essenziale, il necessario minimo comune denominatore per attribuire una sorta di significato ad una quotidianità ripetitiva, prigioniera di sé stessa, stanca persino di riproporsi di volta in volta.
A volte mi spingevo inconsapevolmente nel costringere la realtà a modificarsi: io, attore, colui che agisce e che quindi contribuisce a mutare il corso degli eventi. Se non degli altri e del limitrofo, quanto meno del proprio singolare, ristrettissimo mondo.
Bastava una camminata insolitamente fatta laddove mai mi ero avventurato. Una idea diversa dal solito, un guizzo di genialità verrebbe da dire: perché il genio è sempre improvvisazione, non è mai calcolo, ma è intuizione pura. Quindi è rivoluzione per antonomasia, perché è sconvolgimento dei piani della consuetudine, della routine.
Il genio è per natura quella sregolatezza che infrange le convenzioni e che, pertanto, si riconferma libertario, anarchicheggiante. Ha un brio di energia che viene dal pensiero e non dai muscoli, non dalla forza materiale, bensì da quella esclusivamente intellettuale.
Ecco, questo articolo è di rottura e di protesta, di genialità e di azione improvvisa e improvvisata: non parla del governo, della formazione di una alleanza tra Lega e Cinquestelle. Parla di un mondo fantasticamente interpretato ascoltando l'”io” interiore e abbandonandosi, per una volta, all’abbandono delle civetterie della politica di palazzo, osservando l’interiorità per riappropriarsi della vita, per affermare una semplice verità: si può vivere senza commentare ogni giorno ciò che ci accade intorno, estraniandosi dall’impostura dell’evidente e provando ad osservare i piccoli gesti quotidiani, ciò che facciamo spontaneamente e che è sempre la migliore espressione di noi stessi.
Se solo sapessimo fermarci un attimo, non a riflettere, ma ad abbandonarci a questo esercizio, ne guadagnerebbe prima di tutto quella coscienza individuale che pensa di esistere in quanto rimane costantemente in correlazione col tutto.
Dal tutto si può fuggire. In una prigione si può continuare a sognare, ad ascoltare la musica come Andy Dufresne rinchiuso nel “buco” per due mesi.
Si può correre come Forrest Gump, senza una meta, per voglia pura e basta.
Si può continuare a pensare di non essere in un grande, immenso “Truman Show”, anche se quell’inquietudine della prigionia nello stesso luogo la viviamo un poco tutti. E non è l’andare in vacanza lontano che ci fa sentire più liberi, ma la capacità di trovare la bellezza in ciò che facciamo: soprattutto nella discontinuità. Nella rivoluzione permanente.
MARCO SFERINI
20 maggio 2018
foto di Marco Sferini