La vera, unica riforma: torniamo prima del ’92

La riforma, le riforme. Singolare e plurale si intrecciano, a volte si scambiano nei discorsi e nelle esternazioni di Matteo Renzi e dei suoi ministri. Perché a volte sembra...

La riforma, le riforme. Singolare e plurale si intrecciano, a volte si scambiano nei discorsi e nelle esternazioni di Matteo Renzi e dei suoi ministri. Perché a volte sembra che la riforma debba essere quella per antonomasia e non possa che essere un insieme di cambiamenti radicali delle norme costituzionali; altre volte si fa cenno alla singolarità degli interventi che la maggioranza di governo vorrebbe adottare e far passare in sede parlamentare.
Fatto sta che c’è una logica molto sottile e precisa che lega le riforme renziane e che mira ad indebolire il Parlamento non tanto eliminandone il carattere bicamerale, quanto facendo dell’unica camera rimanente un luogo elettivo con una legge elettorale dove dominerebbe con una acquisizione assoluta di seggi il partito o la coalizione vincitrice da un ballottaggio finale. Berlusconi contro Renzi? Renzi contro Grillo? Grillo contro Berlusconi? In fondo gli scenari sono precostituibilmente immaginabili e calcolabili.
Ed ecco che ognuno propone, come di consueto, una legge elettorale pro domo sua: i grillini a collegi con sbarramenti variabili da loco a loco, Renzi con uno sbarramento nazionale, la reintroduzione delle preferenze a patto che i pentastellati accettino l’impianto sostanziale dell’Italicum.
Forza Italia recrimina, Brunetta guida la fronda contro la nuova prospettiva di accordo tra PD e Grillo e in verità di tutto si parla tranne che di una seria riforma dell’apparato statale.
Personalmente ho grandi e forti dubbi che serva una riforma di questa risma: l’abolizione del Senato (e non tanto perché un senato c’è sempre stato, fin dall’ “ab Urbe condita” di Livio) può anche avere motivo di essere, ma solo se si va verso un monocameralismo che rispetti comunque determinati passaggi parlamentari di garanzia circa i cambiamenti costituzionali e anche il processo di formazione delle leggi.
Se il bicameralismo perfetto ci ha protetto quanto meno negli anni più bui della Repubblica, quando i De Lorenzo, gli Junio Valerio Borghese, Gladio e stragi di stato e strategia della tensione erano all’ordine del giorno, e se ci ha anche protetto da molti tentativi fatti dal ventennio berlusconiano di sovvertire in chiave piduista l’impianto centrale della Carta del 1948, oggi potrebbe ancora svolgere questa funzione riparandoci dai tentativi di mettere in essere una repubblica di stampo presidenziale, dove il Parlamento, dimezzato e ridotto a mero esecutore delle volontà dell’esecutivo, non sarebbe altro che un luogo di mera rappresentanza privo di qualunque potere fondamentale.
La prima riforma da fare, vera, seria, sarebbe quella di mettere in pratica la Costituzione, ripristinandone anche ambiti che sono stati ampiamente inquinati: l’introduzione del pareggio di bilancio ne è un chiaro esempio.
Andrebbe invece ripristinata una serie di garanzie che esistevano e che garantivano non solo l’aspetto ma il concreto ruolo pubblico del parlamentare che, invece, col tempo è divenuto espressione privata delle segreterie di partito o di movimento che siano.
La settimana delle riforme di Renzi è, quindi, una settimana lontana dall’essere quello che dice di voler essere. E’ la ricerca di una tessitura di una tela che finirà per essere disfatta, un po’ come Penelope faceva per allontanare la minaccia del matrimonio con i proci.
Oggi il compito di una opposizione di sinistra a questo governo deve essere proprio il disfacimento di ogni intervento governativo in questo senso: la Costituzione e la legge elettorale per essere più democratiche devono riassumere i caratteri che avevano prima del 1992, rendendo la prima applicabile in ogni sua determinazione e la seconda nuovamente proporzionale pura. Senza sbarramenti. Un partito davvero forte non ha bisogno di premi di maggioranza per governare, ma deve confidare nel dettato della Carta, secondo cui i governi si formano in Parlamento secondo una maggioranza che lì deve crearsi col confronto e non antecedentemente la data delle elezioni, indicando ai cittadini chi sarà il presidente del Consiglio ancor prima che venga nominato dal Capo dello Stato con il mandato esplorativo.
Tutto è stato sovvertito in questi anni. E con il tacito beneplacito anche del Colle più alto della Repubblica.
Tutto è stato sovvertito in nome della governabilità che non è esistita mai e che è servita solo da paravento per nascondere le vere intenzioni di chi ha seduto a Palazzo Chigi: proteggere determinati interessi economici al di là della democrazia rappresentativa, delegata ed effettiva nelle sue istituzioni.
Non esiste altra riforma che questa: ritornare alla delega totale, piena e senza alcun trucchetto di giornata. E la delega piena, per quanto insufficiente sia (in quanto non governo diretto del popolo ma, appunto, delega), è sempre meglio di una delega data col valore diversificato a seconda del partito scelto: chi conta di più vale di più e chi conta di meno vale di meno.
Esattamente il contrario di quanto affermato dalla Costituzione, ancora una volta, che protegge invece le minoranze. Perché non sempre la maggioranza ha ragione. E se serve un controllo sulla maggioranza, questo non potrà che essere fatto da chi non è maggioranza. Ammesso che si accetti, tra Italicum, Democratellum e porcelli vari che una minoranza politica, sociale e civile in Italia possa ancora avere dei diritti, esistere e rappresentare una larga fetta di popolo.

MARCO SFERINI

29 giugno 2014

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