In queste calde giornate di pre-estive alla sera girovago più a lungo con Bia, la mia sorellina pelosa a quattro zampe. E nel quasi completo (si fa per dire) silenzio cittadino, tra me e me ragiono degli eventi della giornata e, nel contempo, osservo la cagnolona girovagare pochi metri avanti a me.
Così, ieri sera, ho pensato alla bagarre scoppiata in Senato sul tema dello “ius soli” e ho collegato tutto ciò a Bia. Apparentemente un cane e il diritto di cittadinanza per nascita nello Stato italiano c’entrano come i cavoli a merenda. Eppure nei miei contorcimenti mentali ho trovato un nesso, il filo di un ragionamento da sviluppare. E che vi sottopongo.
La discussione che sta affrontando il Parlamento riguarda per l’appunto uno “ius soli” che viene definito “temperato” e non “automatico”, come quello che scatta ad esempio in molti paesi dell’America e in alcuni dell’Asia nel momento in cui un bambino, figlio di genitori non autoctoni, nasce nel territorio dello Stato.
Quindi il diritto alla cittadinanza italiana per i figli di persone non autoctone (scusate tanto, ma la parola “straniero” mi crea una pruriginosità insopportabile) viene loro esteso se almeno uno dei due genitori ha un permesso di soggiorno da lungo tempo (se cittadino extra UE) o se i genitori hanno il “diritto di soggiorno permanente” nella UE (quindi siano cittadini della UE medesima).
La norma proposta in Parlamento, e già approvata dalla Camera dei Deputati nel 2015, propone inoltre lo “ius culturae”. Così recita il dispositivo: acquista la cittadinanza italiana “il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età. Egli acquista di diritto la cittadinanza, qualora abbia frequentato regolarmente (ai sensi della normativa vigente) un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale”.
Per principio progressista, diciamo così, penso che tutto ciò che aumenta, estende e garantisce nuovi diritti civili e sociali non possa che essere buona cosa. Ma non posso cancellare dalla mia mente e dalla mia critica politica il fatto che il PD propone lo “ius soli” e lo “ius culturae” e, allo stesso tempo, limita la libertà di altri cittadini con i decreti Minniti – Orlando, vere e proprie norme restrittive in base alla provenienza dei migranti; neppure posso dimenticarmi che il governo del PD di Renzi prima e di Gentiloni ora ha creato e conservato norme che hanno falcidiato i diritti sociali dei lavoratori e delle lavoratrici, degli studenti, dei pensionati. Di tutte quelle categorie deboli che risentono tutto il peso della crisi economica a differenza dei padroni.
La domanda allora è: ma la cittadinanza come si acquista? Per decreto soltanto? Oppure la si ottiene quando il tuo Stato collabora con te nel garantire una universale eguaglianza di diritti e quindi una vita degna per tutte e tutti i cittadini?
E questi nuovi cittadini italiani, benché riconosciuti come tali dopo l’approvazione di una legge, avranno la garanzia di essere trattati come tali tanto dalle istituzioni quanto dai loro “connazionali”?
Non l’avranno. Rispondo anticipatamente perché il razzismo è una malapianta difficile da sradicare: fa perno nella disperazione sociale e quando la povertà minaccia l’esistenza, l’essere (dis)umano usa gli artigli della differenza presuntamente razziale ed etnica per affermare i propri diritti, per difendere una proprietà del suolo che oggi invece viene invocata da tutti come elemento di estensione del diritto ad essere eguali nel riconoscimento di appartenenza ad un territorio, ad un popolo.
Confesso che, se non fosse che i diritti si conquistano anche in questo modo, poco mi importerebbe della legiferazione in merito: una umanità priva di condizionamenti merceologici e di sensi di proprietà del suolo, visceralmente collegata al sentimento di appartenenza soltanto ad un paese piuttosto che ad un pianeta, potrebbe comprendere l’inutilità dello stabilire per legge che siamo tutti uguali.
Ma la cittadinanza è invece un diritto, in qualche modo è un diritto negativo perché comprende dei diritti che, anche se stabiliti per natura, sono rifiutati a chi non è italiano o francese o spagnolo o tedesco…
Le nazioni esistono, i confini si abbattono solo per convenienze commerciali, le merci circolano liberamente ma gli esseri umani invece sono inesistenti e irriconoscibili da parte di uno Stato che può rendere “apolide” un individuo.
E, se non fosse che essere “apolidi” significasse essere privi del riconoscimento generale di status di essere umano quasi, direi anche che mi importerebbe molto poco l’esserlo io stesso. Non mi cambierebbe la vita se la vita non fosse legata alla cittadinanza, all’italianità, all’essere riconoscibili in quanto tali.
Non nego che sia importante, anche psicologicamente parlando, sentirsi parte di una comunità: del resto l’essere umano è un “animale sociale” e rifiuta di vivere solitariamente. Vive in “branchi”, cerca il confronto con altri simili per riconoscere sé medesimo e trovare un senso alla propria esistenza, per non sentirsi appunto solo, sperduto.
Però, a volte, l’elemento della cittadinanza viene sopravvalutato e altre volte viene invece miseramente mortificato: ogni volta che si cancellano le tutele sociali, il futuro della stragrande maggioranza delle persone, si distrugge la cittadinanza. Una cittadinanza laicamente intesa, come appartenenza repubblicana ad un consesso egualitario di federati.
Per questo ieri sera, passeggiando con Bia, ho pensato che lei è fortunata a non avere la consapevolezza (almeno credo…) di essere nata in Italia. Forse nemmeno di sapere cos’è l’Italia o il posto dove si trova. Probabilmente nella sua mente lei definirà diversamente i concetti e i nomi che attribuiamo a cose e persone.
Magari non sa nemmeno di essere ciò che noi chiamiamo “cane”. Lei, semplicemente, esiste e vive le sue giornate senza l’assillo dell’appartenenza ad un territorio. Riconosce la sua casa, le strade dove si china ad annusare la marcatura del territorio fatta dai suoi simili. Riconosce i suoi simili. Ma non penso che per lei sarebbe importante avere un pezzo di carta su cui avere scritto: “Bia, cane meticcio di cittadinanza canina”.
Lei è lei e tutto il resto non ha grande valore morale.
Le invidio tutto questo: le invidio l’inconsapevolezza di molte altre cose. Le invidio di non essere stata umanizzata e di aver conservato i suoi istinti canini, di aver mantenuto un distacco che la rende autonoma durante la giornata. Quasi come un gatto.
Cerca solo empatia, affetto, amore e ne dà senza pretendere niente in cambio se non altro affetto, altro amore.
Ho provato a spiegare a Bia il “valore” della cittadinanza, ma ha raddrizzato le sue orecchie e inclinato il muso come stupefatta. Non credo abbia capito. Ed è meglio così.
Estendere i diritti civili con le leggi è importante. Farlo vuol però anche dire che siamo ancora molto indietro nel riconoscerci come una unica umanità, seppur nelle differenze che naturalmente esistono e che possono essere un valore finché non diventano esclusivismo.
Sentiamoci anche fieri di essere italiani: ma magari perché possiamo leggere senza traduzione Manzoni, Dante, Petrarca, Leopardi, Boccaccio, Pascoli, Gadda… Ma non dimentichiamo mai che la cultura, come la vita, non conosce confini e rimaniamo comunque italiani anche se leggiamo Goethe, Kant, Brecht, Tolstoj o Confucio.
Sentiamoci fieri di essere italiani se esserlo vuol dire non fare della Repubblica una gabbia apparentemente dorata in cui vivere a scapito di altri popoli. Perché arrivare all’inconoscibilità e all’incepibilità della parola “straniero” sarebbe una grande conquista non di cittadinanza ma di civiltà universale.
MARCO SFERINI
16 giugno 2017
foto tratta da Pixabay