Ci ha reso passivi la velocità. Di tutto. Ma particolarmente quella dell’informazione. E questa passività è diventata l’acquisizione, solamente in parte spontanea, di un numero di notizie che sono così innumerevoli da essere impercettibili nell’insieme. Diventano un caleidoscopio di confusione e, quindi, di pressapochismo.
Scorrendo le prime pagine dei più grandi organi di informazione su Internet (mezzo certamente più veloce della santa, beata carta stampata che necessita dell’osservazione di una notizia alla volta, saltando da testi a foto, da catenacci a didascalie minuscole…) questa tendenza al cannibalismo mediatico la si percepisce tutta.
Almeno io la sento, la vivo nello scendere con la rotellina del mouse e nella “fame” di notizie che mi assale a poco a poco che scorro le pagine. Non basta un click per poter essere sazi: bisogna curiosare all’ennesima potenza, attratti da titoli che mescolano la politica con la chiacchiera chiacchierata, con quello che chiamiamo “gossip”.
Per cui, il viaggio di Donald Trump in Vaticano diventa tutto un lancio e rilancio di foto e immagini sulle reti sociali di Facebook e Twitter fatte di sguardi del Papa, di analisi del comportamento tra il presidente americano e la prima dama della Repubblica stellata con annessi e connessi i pezzi di critica stilistica: dalla camminata fino ai capi di abbigliamento indossati.
La notizia passa in secondo piano: prima viene la curiosità. Che è vorace nell’essere proposta in velocità di bombardamento. Infatti non esiste mai un solo articolo per ogni evento, ma ci sono decine di approfondimenti e, quindi, per capire a fondo cosa si siano detti Francesco e Donald Trump occorre scavalcare qualche titolo che ci parla più di cappellini e velette rispetto all’ambiente, al nucleare, alle guerre, al terrorismo.
La velocità dell’informazione è stimolo produttivo e quindi aumento costante della domanda della medesima: il lettore viene accontentato e gli inserzionisti pubblicitari anche.
Siamo così tutti contenti e felici di essere disinformati ogni giorno.
Tra il 20 e il 21 giugno del 1791, negli ultimi mesi di quello che fu il quasi millenario Regno di Francia, il sovrano decise di fuggire: l’alito della rivoluzione si faceva forte e Luigi XVI preferì fingersi barone, salire su una carrozza e tentare di raggiungere Metz, magari per poi scavalcare i confini e trovare salvezza nell’ancora esistente Sacro Romano Impero della Nazione Germanica.
La notizia delle fuga del re arrivò a Parigi nel giro di un giorno e mezzo. A Marsiglia dopo quattro giorni e, nelle zone più impervie e montagnose della Francia, per essere a conoscenza del fatto i cittadini di Tolosa, ad esempio, ci misero ben una settimana.
I corrieri postali cavalcavano e non esisteva Internet. Quindi ciò che era accaduto una settimana prima lo si veniva a sapere una settimana dopo e i tempi della storia dell’umanità erano più lenti, dilatati per forza di cose.
Oggi, nel giro di poche ore avremmo saputo subito tutto: colore della carrozza, abbigliamento di Maria Antonietta travestita da baronessa russa, la strada percorsa ricostruita sui touch screen delle televisioni e avremmo anche già le interviste agli uomini e alle donne di Varennes che assistettero al triste evento.
Ma, forse, con i mezzi di oggi, Luigi XVI non avrebbe nemmeno percorso dieci chilometri. Nemmeno su una automobile. Lo avrebbero riconosciuto subito: intanto dal viso, mentre nel 1791 per la Francia esistevano ritratti del re ma nessuno poteva giurare di averlo mai visto chiaramente. Un ritratto è pur sempre una interpretazione di un viso fatta da un altra persona che, quindi, rischia di non essere preciso, di “interpretare” quindi l’espressione del sovrano, le sue fattezze, sorrisi e volti scuri.
Poi, oltre alla riconoscibilità de visu, lo avremmo fermato per via della targa del mezzo. Oppure per la cella telefonica cui fosse stato agganciato il suo cellulare.
Insomma, non sarebbe arrivato a Varennes e sarebbe finito in guai peggiori del processo che ebbe dalla Convenzione nazionale: sarebbe finito nei processi mediatici televisivi stracolmi di commentatori, di esperti, di contestatori di ogni tipo.
Il tritacarne dei social network avrebbe poi fatto il resto. Oggi tutti possiamo dire quello che pensiamo e, sovente, abusiamo di questo diritto naturale, incontestabile e incontrovertibile. Ne abusiamo quando pensiamo che la nostra opinione, veloce come l’informazione della grande stampa, arrivando in tutto il mondo nello stesso momento, assuma un carattere universalistico che invece non ha. Perché rimane una opinione, quindi una espressione parziale, una interpretazione della realtà.
La politica, in questo senso, aiuta perché insegna – se vissuta e fatta disinteressatamente – ad occuparsi di sane passioni, di ideali che devono poter diventare concretezza e, quindi, fa nascere spiriti critici in ciascuno di noi.
Ma, spesso, la spocchia prende il sopravvento e la difesa delle idee e dei valori si trasforma in arroganza e pretenziosità. Imperfezioni tutte umane.
Quindi, per concludere, la velocità, secondo voi, ci ha favorito o penalizzato nello sviluppo della libertà di parola, espressione e scrittura? Questo è il dilemma cui, personalmente, ancora non riesco a dare una risposta esaustiva. Pensiamoci. Insieme…
MARCO SFERINI
26 maggio 2017
foto tratta da Pixabay