La variante inglese fa paura. Cosa ne sappiamo

In attesa di ulteriori analisi epidemiologiche. Non è detto che la rapida diffusione della mutazione B.1.1.7 dipenda da una maggiore infettività. Nelle sequenze più recenti registrate nel Regno unito, la variante si trova in meno di un terzo dei campioni

Piccole differenze genetiche sono state individuate in quasi tutte le 275 mila sequenze del Sars-CoV-2 registrate dai virologi. Ma finora nessuna ha avuto un impatto significativo sull’andamento del contagio. Bisogna dunque aver paura della «variante inglese» denominata dai virologi «B.1.1.7»?

Se lo chiedono da un paio di giorni gli scienziati di tutto il mondo. A sentire le autorità sanitarie inglesi, la preoccupazione è giustificata. Nei campioni raccolti da novembre a oggi nel Regno Unito, B.1.1.7 è apparso con una frequenza in aumento, a un tasso di crescita superiore del 70% rispetto alle altre varianti del virus. E quando una variante si incontra più spesso nei test, spesso significa che è più infettiva. Se ciò fosse confermato, gli epidemiologi inglesi stimano che l’indice Rt potrebbe aumentare di 0,4-0,9. Inoltre, i pazienti in cui è stata osservata mostrano una carica virale mediamente più elevata, altro fattore che aumenta la trasmissione.

Non è detto, tuttavia, che la rapida diffusione della variante B.1.1.7 dipenda da una maggiore infettività. «Simili repentini scatti nell’abbondanza relativa di alcuni genotipi nel tempo si sono manifestati anche altrove e senza che vi siano delle chiare evidenze che portino a pensare a una maggiore trasmissibilità come ad esempio avvenuto per la cosiddetta “variante spagnola” alla fine dell’estate», spiega Marco Gerdol, immunologo e genetista all’università di Trieste.

«Le stime proposte al momento sul possibile impatto su Rt – prosegue Gerdol – si basano esclusivamente sull’osservazione empirica del tasso di crescita. Ma non avendo a disposizione ulteriori dati su eventuali fattori demografici che stiano facendo da traino – ad esempio, una particolare diffusione in quartieri londinesi molto popolosi – credo sia più saggio mantenere la calma e attendere ulteriori analisi epidemiologiche che certamente arriveranno nelle prossime settimane».

Una variante può infatti diventare più numerosa per ragioni indipendenti dal virus in sé: si calcola che il 20% dei casi sia responsabile dell’80% dei contagi, perciò spesso sono questi “super-diffusori” a determinare con il loro comportamento la maggiore frequenza di certe varianti.

A differenza di altre occasioni, B.1.1.7 ha però fatto immediatamente scattare restrizioni e blocchi alle frontiere, perché la diffusione della variante coincide con una decisa accelerazione del virus nel Regno Unito, dove si contano 35 mila contagi giornalieri. Si teme che i due fatti siano collegati, ma anche su questo è bene mantenere cautela. Nelle sequenze più recenti registrate nel paese, la variante si trova in meno di un terzo dei campioni, quindi l’aumento dei casi di Covid-19 non dipende solo da B.1.1.7.

Se la variante fosse davvero più infettiva, la spiegazione potrebbe risiedere di una manciata di mutazioni genetiche osservate nel virus. Il sospetto principale è la cosiddetta mutazione N501Y, presente nella variante inglese. La mutazione modifica leggermente la proteina virale che aggancia la cellula e aumenta la capacità infettiva. Questa e altre mutazioni sono già apparse in passato senza provocare sfracelli. «Il fatto che N501Y sia già comparsa indipendentemente nei mesi scorsi in altre regioni geografiche senza portare a queste dinamiche “esplosive” – spiega Gerdol – suggerisce che un effetto sulla trasmissibilità non sia da ricercarsi esclusivamente in questa mutazione, ma piuttosto a complesse interazioni con le altre mutazioni ad essa associate, che riguardano regioni della proteina Spike strutturalmente distinte». Conclusione: la maggiore infettività è un dato incerto, che richiederà studi specifici in laboratorio.

Fortunatamente, la letalità della “variante” non sembra significativamente più elevata. Su circa mille campioni esaminati i decessi sono stati solo quattro. I membri di peso del Comitato Tecnico Scientifico italiano, come Franco Locatelli, si sono affrettati a ripetere che «è altamente improbabile che si perda l’efficacia del vaccino». Il report del 20 dicembre del Centro europeo per il controllo delle malattie però segnala che «sulla base del numero e della posizione delle mutazioni della proteina Spike è probabile che si osservi una qualche riduzione nel potere di neutralizzazione degli anticorpi». In effetti, sui 915 pazienti portatori della variante studiati nel Regno Unito, 4 erano probabili casi di re-infezione in persone che avevano già avuto il virus: non moltissime in assoluto, ma abbastanza da stare in allerta. «Analizzando le mutazioni presenti nella variante inglese» spiega al manifesto il virologo Giovanni Maga del Cnr «non sembra ci siano motivi per immaginare che questo virus riesca a sfuggire alle nostre difese, né che possa essere resistente ai vaccini. Questo perché i vaccini inducono risposta contro decine di regioni della proteina Spike, alcune delle quali sono molto importanti e quindi mutano meno». Non è escluso che nel tempo sorgano varianti più resistenti ai vaccini, «ma è una cosa normale: succede quasi ogni anno con l’influenza» dice Maga. «Le piattaforme utilizzate per i vaccini contro Sars-CoV-2 consentono di adattarli rapidamente alle varianti circolanti».

Allarmi come questo sono destinati a ripetersi. E in Italia dovremo rassegnarci a subirli perché arriveranno quasi tutti dall’estero. «Non dimentichiamoci che l’Uk è l’unico paese europeo, assieme alla Danimarca, ad aver messo in piedi un efficiente sistema di sorveglianza molecolare», spiega Gerdol. Da noi, infatti, di ricerca per scoprire i ceppi emergenti se ne fa poca. Dal primo novembre ad oggi l’Italia ha sequenziato 45 genomi, contro i 22.970 sequenziati del Regno Unito nello stesso periodo.

ANDREA CAPOCCI

da il manifesto.it

Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

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