Sorrisi, abbracci e strette di mano. Striscioni che sembrano parlare a Berlinguer (“Forza Enrico!“) ed invece si rivolgono a Letta, intellettuale e politico degno di queste attribuzioni, un uomo di governo piuttosto che di lotta, forse per un partito altrettanto piuttosto di governo rispetto alla lotta.
Per carità di patria, di dio e di quel che volete, non si tratta di fare riferimento a ciò che i democratici (sia di origine socialdemocratica sia democristiana e popolare, proprio come Enrico Letta) ritengono anacronistico e privo di una correlazione con i fenomeni socio-economici odierni, ossia la “lotta di classe“. Più mestamente, l’unica lotta cui il PD pre, durante e post-zingarettiano può oggettivamente aspirare è quella fatta tramite un riformismo pienamente inserito nel contesto di una condivisione delle priorità acquisite: imprese, profitti, borse e finanza e poi, come variabili “riformisticamente” dipendenti dalla incontestabile struttura economica dominante, i diritti sociali, del lavoro e del non lavoro, contornati dalla bella cornice liberale della difesa dei diritti civili.
Giusto un tocco di formalissima pennellata di eguaglianza e il partito principale del centrosinistra può, anche con il ritorno di Letta, sperare di essere definito da tutti i giornali come “la sinistra“. Il grande inganno è permesso, del resto, dall’assenza sul campo pratico della lotta giornaliera di una vera sinistra di alternativa, se vogliamo anche di un vero riformismo socialdemocratico di cui, a ben vedere, nel PD non se ne riscontra traccia.
Fin dalla sua nascita sotto la stella veltroniana, il Partito democratico ha provato a incarnare il progressismo italiano di nuovo millennio, esorcizzando tutti i timori che i retaggi del Novecento potessero essere delle briglia troppo vincolanti, una mordacchia censorea ad uno slancio che si voleva guardare di più all’esempio liberal-liberista americano rispetto alla tradizione europea, riformista quanto si vuole, ma pur sempre figlia di una storia legata a valori ispirati – fin dalla Rivoluzione francese – all’impronta egualitarista piuttosto che al rampantismo individualista su cui si fonda la “civile” società a stelle e strisce.
Veltroni è stato il post-comunista più efficace in questo senso e, non a caso, il più risoluto interprete della nuova stagione dell’anomalo bicefalo italiano: in nessun altro paese d’Europa si è assistito alla fusione di correnti o partiti socialisti con forze del cattolicesimo istituzionale e di base. Il PD nasce anche come progetto autonomo, riguardo a sé stesso, ma nasce in particolar modo “per contrarietà“, come alternanza (non come alternativa) alle destre prima berlusconiane ed oggi pienamente sovraniste.
La sua ragione d’esistere non è la trasformazione della società attraverso un metodo riformatore che intervenga nella vita politica e sociale del Paese con azioni concretamente riformiste. La sua prima ragione d’essere e di esserci è, proprio ontologicamente parlando, la risposta moderata alla domanda di rappresentanza politica da parte delle classi medie e del mondo delle imprese alla ricerca di una sponda di governo, questa sì, alternativa alle destre, quindi meno irruente e ingestibile in politica interna, persino cafona e irriverente nel rappresentare l’Italia all’estero.
Nel nome del soddisfacimento di questa domanda da parte del ceto medio e dell’industrialismo piccolo e grande, viene tollerato dai futuri “grandi elettori” (niente a che vedere con l’origine statunitense e nemmeno con quella vaticana del termine) la non escludibile origine “di sinistra” di una parte importante del nuovo partito: del resto, fino a pochi anni fa, vi convivevano e convergevano spesso su posizioni politiche, tattiche e strategiche, personalità così diverse da far pensare che una certa eredità del PCI fosse transitata dentro all’anomalo bicefalo, fondendosi con l’ispirazione cristiano-sociale proveniente dalla sinistra della DC.
Per gran parte dell’opinione pubblica e dell’elettorato, il PD, a guida Veltroni, Bersani, Epifani, somiglia al vecchio PDS e può quindi essere chiamato “sinistra“, stiracchiando al massimo le latitudini del significato, in barba ad ogni storicizzazione antirevisionista della lingua politica italiana. Anche quando a guidarlo sono segretari provenienti dalla pars catholica, il PD, complice una certa gauche che sogna di essere “la sinistra del centrosinistra” (Vendola con SEL prima, Fratoianni con Sinistra Italiana poi), rimane l’ala certamente moderata di uno schieramento e di alleanze paradigmaticamente progressiste.
Una esemplarità che non non sbiadisce neppure quando arriva Matteo Renzi, sovverte ogni equilibrio interno e apre la stagione della trasformazione centrista che guarda a destra, che si pone come obiettivo non il compromesso tra privilegi delle classi dirigenti padronali e i diritti sociali dei lavoratori, ma vuole l’esclusiva della rappresentanza politica di tutto il mondo dell’impresa, accantonando compensazione e i tentativi di colpi di coda di un seppur vago e flebile riferimento alla tutela del mondo del lavoro.
Per un attimo, pare aprirsi un averno: si minacciano molteplici tentativi di scissione, creazione di nuove correnti, ma nemmeno la fuoriuscita di Civati prima e di D’Alema e Bersani poi, riesce a scalfire il primato del PD nella sinistra di cui non fa oggettivamente più parte e che, anche se così fosse, contraddice ad ogni più sospinto di riforma governativa quando crea veri e propri disastri antisociali con il “Jobs act“, la “Buona scuola” e gli attacchi anticostituzionali agli equilibri tra i poteri dello Stato, tentanto un ridimensionamento del ruolo del Parlamento a tutto vantaggio dell’esecutivo.
Ciò è reso possibile dall’anomalia originaria da cui nasce e sui cresce il PD: la compressione della cultura socialdemocratica dei diritti operai e dei lavoratori, per fare largo alle esigenze delle imprese entro un contesto di accettazione del mercato, del capitalismo e della sua involuzione liberista che descrive i riposizionamenti globali del capitale, da continente a continente, e che interessa quanto meno gli ultimi venti anni (almeno) della storia tanto italiana quanto europea, pienamente dentro la globalizzazione totale del regime delle merci e del profitto.
Il PD di Letta, che viene dopo quello di Zingaretti, non sarà in nessun modo “rivoluzionario” rispetto alla linea tracciata fino ad oggi dalle ragioni stesse per cui il partito è nato e si è sostituito a due filoni ideologici e sociali della politica italiana che, da fronti opposti, avevano segnato la vita del Paese fin dai primi anni del ‘900. Non è sufficiente essere stati detronizzati dal governo da Renzi, con le infingarde rassicurazioni dell’ormai celebre detto: «Stai sereno, Enrico», per potersi oggi riqualificare e apparire come la soluzione più a sinistra possibile, per fare del PD – come ha affermato la presidente Cuppi nella sua introduzione all’Assemblea nazionale – un luogo aperto e inclusivo che punti alla costruzione di una “società più giusta” e di un “mondo migliore“.
Sono frasi completamente prive di significato politico e non hanno alcuna attinenza con un progetto veramente critico nei confronti dell’economia di mercato. Sono soltanto parole messe lì per riempire un discorso che deve guardare al più vasto consenso popolare, provando a far sembrare la convinta partecipazione al governo del banchiere internazionale Mario Draghi come un sacrificio dall’alto spirito patriottico, per la salvezza della nazione nel tempo di pandemia.
L’utilità del PD c’è sempre: sia che governi tecnicamente con Monti e la Fornero, con Renzi, con Letta, con i Cinquestelle e oggi con un arco di forze che fa tremare le vene ai polsi. Almeno per chi veramente ha a cuore una visione sociale, alternativa e (osiamo) “di classe” di una vita che si fa sempre più drammatica per gli sfruttati e sempre più salvaguardata per i loro opposti.
Luciana Castellina dice bene quando afferma, oggi su “La Stampa“, che sarebbe salutare per la politica italiana una scomparsa del PD, che apostrofa più che giustamente come un fallimento politico totale, dal principio fino ad oggi. Ma poi cade nella tentazione dell’utilità del “meno peggio“, riesuma la illogicità di una alternativa che ha sempre le ambigue sembianze dell’alternanza, e mette in secondo piano la questione economica di fondo per dare risalto al primato della difesa del Paese dal pericolo delle destre. Forse, per un attimo, dimentica che il PD sta governando con le destre, con alla guida dell’esecutivo la massima espressione della gestione bancaria interstatale e continentale, che ha costretto i paesi poveri a farsi carico delle difficoltà di quelli ricchi in affanno. Ha salvato l’Euro. Ma ad un prezzo sociale molto, troppo, insopportabilmente alto.
Non si può operare una critica politicamente razionale, privata di pregiudizi emozionali, su un partito che è uno dei maggiori responsabili dell’avanzata del liberismo nell’Italia degli ultimi decenni e ritenere, al contempo, possibile scorgere in esso una ancora di salvezza dalle destre. Di quali destre dovremmo avere maggior timore? Per virulenza, portata di pregiudizi e odio, certamente di quelle sovraniste, in parte al governo e in parte all’opposizione. Ma il combinato della maggioranza di “unità nazionale“, che guida oggi questo disgraziato Paese, può davvero essere tanto eccezionale da escludere in futuro che il PD, con Letta alla sua guida, seguiterà a cercare – in tema di riforme economiche – quel largo consenso con le destre populiste, liberiste e persino sovraniste che oggi è alla base del patto dell’era Draghi?
La maggioranza di oggi è molto di più della Bicamerale di un tempo. Il governo odierno è ben oltre le controriforme incostituzionali tentate tanto dal berlusconismo quanto dal renzismo. La democrazia non è in pericolo soltanto quando i fascisti agitano i moderni gagliardetti, le croci celtiche e le bandiere tricolori di Salò. La democrazia è soprattutto in pericolo quando le classi sociali più sfruttate, i lavoratori e i pensionati hanno sempre meno diritti, sempre meno soldi nelle loro tasche e sono pure indotti a ritenere che tutto questo avvenga per rendere più bello, vivibile e civile l’Italia in cui, a grande fatica, sopravvivono.
Applaudite pure Letta, criticatelo propositivamente e pensate che tutto sia compatibile, intersecabile e simbiotizzabile. Quando i confini tra le idee si fanno così labili, tutto è permesso. Anche di rovesciare i significati delle parole e poter candidamente affermare che il PD è di sinistra e che lo è anche Letta.
MARCO SFERINI
14 marzo 2021
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