“Ma perché Trump fa tutto questo? Perché ha aperto l’ambasciata a Gerusalemme?”. Domande semplici, forse semplicistiche, però dirette, come quelle che ti farebbe un bambino su argomenti complicati da spiegare alla sua età innocente.
Tuttavia una risposta va data, perché si può dare cercando di rispettare semplicità della domanda e complessità degli argomenti geopolitico-economici in ballo sul livello internazionale.
La risposta più diretta parte dal rapporto storico tra Stati Uniti d’America e Israele e dal legame che hanno stabilito per determinare vicendevolmente una protezione di interessi per l’appunto economici, politici grazie alla presenza dello stato ebraico in un contesto territoriale anomalo dopo millenni di storia, dopo la diaspora del popolo di re Davide ad opera dell’imperatore romano Tito.
Un salto nella storia occorre farlo per comprendere qualunque contesto attuale e tanto più quello che così indissolubilmente lega Usa e Israele.
Perché Israele è sempre e solo stato il nome della “Nazione ebraica” e mai di uno Stato veramente tale. La stessa Palestina era la terra sia degli ebrei sia dei palestinesi propriamente detti, quindi gli arabi, quindi i cristiani o semplicemente coloro che nascevano, crescevano e vivevano nella lingua di terra tra il Mar Morto e il Mar Mediterraneo a ridosso dei confini libanesi (delle terre della grande civiltà fenicia) e di quelle egiziane.
Un incontro di popoli dal grandissimo passato le cui tradizioni si sono tramandate fino ad oggi.
Poi, con l’avvento di Hitler al potere in Germania e la “soluzione finale” contro tutti gli Ebrei d’Europa, scartata l’ipotesi di deportarli tutti in Madagascar, lo sterminio di massa ha decimato le tante comunità ebraiche presenti in tutti i paesi del Vecchio continente a cominciare dalla Polonia.
Terminata la Seconda guerra mondiale, il popolo ebraico si è ritornato a riconoscere come unità sovranazionale rispetto ai paesi in cui aveva vissuto e ha cercato, in larga parte, un rifugio lontano da terre distrutte, martoriate e dove il ricordo dell’Olocausto era impossibile da sopportare giorno dopo giorno.
Il sentimento politico del sionismo di inizio Novecento ha ripreso allora vigore e ha cercato la sua “terra promessa” in quella Palestina da cui la “nazione ebraica” era stata scacciata duemila anni prima.
La Palestina, terra controllata dagli inglesi su mandato dell’ONU, venne così divisa in due: alcune zone divennero ebraiche e altre rimasero arabe (quindi palestinesi).
Da allora il conflitto si è protratto con guerre dichiarate e non dichiarate per settant’anni e, nonostante accordi che sembravano aver ad Oslo sancito un percorso di pace da realizzare per arrivare al riconoscimento dei “due popoli e due Stati”, ad oggi abbiamo ancora un solo Stato effettivamente riconosciuto come unico ad avere il diritto di spadroneggiare in tutto il territorio dell’ex mandato inglese sulla Palestina.
L’ONU ha ammesso la stessa Palestina come “Stato di Palestina” con lo status di “osservatore”, riconoscendone dunque l’entità in quanto organizzazione di un popolo su un determinato territorio. Ma Israele continua a non riconoscere il diritto del popolo palestinese ad essere tale e quale quello israeliano.
Questa breve descrizione storica è solo un accenno, banale alla complessa vicenda israelo-palestinese lunga quasi un secolo, ma permette almeno di capire forse un elemento fondamentale: Israele è nel Medio Oriente un avamposto occidentalizzato in un mondo arabo, più o meno islamizzato a seconda dei contesti.
Le guerre del Golfo che si sono succedute hanno dimostrato quanto fosse importante per gli Stati Uniti avere una base permanente in quell’area per gestire le operazioni non solo belliche ma soprattutto i commerci e le relazioni economiche con altri Stati.
Del resto, Israele, che altrimenti sarebbe isolato, nonostante abbia da sempre uno degli eserciti più potenti del mondo che è riuscito a battere coalizioni di paesi arabi respingendoli oltre il Canale di Suez, il Golan siriano e le acque del Giordano, trova negli Stati Uniti un alleato imprescindibile, necessario e ormai “naturale” perché è universalmente noto che l’alta finanza americana è controllata da gruppi di banchieri di origine ebraica e quindi non indifferenti alle esigenze della “madre patria” fondata da Ben Gurion nel 1948.
Israele ha fagocitato quasi tutto il territorio palestinese, ha costruito un muro per ghettizzare la popolazione dei celeberrimi “territori occupati” della Cisgiordania e ha isolato la Striscia di Gaza, praticamente una prigione a cielo aperto.
Israele controlla tutto ciò che è vitale per i palestinesi che solo formalmente hanno uno “Autorità nazionale” diventata “Stato” solo per le Nazioni Unite.
I palestinesi sono alla mercé del potere politico israeliano e dipendono da esso per i bisogni più elementari a cominciare dal diritto all’acqua.
La politica espansionistica di Israele, dunque, è stata portata avanti in questi decenni, dopo la morte di Rabin e di Arafat, da coalizioni di destra estrema, nazionalista e guerrafondaia. Nessun dialogo, nessun diritto per i palestinesi. Solo carcere, repressione, varchi di controllo, sottomissione totale al volere di Tel Aviv.
Dunque, tornando alle domande iniziali, si potrebbe rispondere che Trump ha aperto una ambasciata degli Usa a Gerusalemme per affermare prepotentemente un linea politica che dice al mondo: gli Stati Uniti sono e saranno sempre dalla parte israeliana e non riconoscono nessun diritto ai palestinesi.
Siccome Gerusalemme è una doppia capitale, contesa da israeliani e palestinesi, una città santa per tutte e tre le religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islamismo) pare scontato affermare, ma bisogna farlo, che le complicanze che si riversano a cascata in quel piccolo lembo di territorio del Medio Oriente sono politiche, economiche, strategico-militari e perfino culturali e religiose.
Tutto si tiene in un complicatissimo risiko dove nessuno vince del tutto ma dove prevale la prepotenza israeliana e la spocchia della destra americana di imporsi imperialisticamente come dominio superiore, come etica superiore, come unico luogo del diritto: il diritto degli israeliani a vivere in una terra che può anche essere loro e il diritto (forse quasi un dovere…) dei palestinesi ad essere violentemente assassinati dall’esercito di Netanyahu in una terra che non è la loro nonostante lo sia.
La storia di un popolo è niente davanti alla prepotenza delle armi e degli interessi economici. Ma la storia di un popolo che ha subito la “shoah” e che ha conosciuto lo sterminio sistematico e di massa avrebbe potuto essere una storia di pace e di convivenza, sottolineando i valori negati da Hitler come propri, come elemento costitutivo della nazione ebraica e di Israele.
Invece, con ogni azione repressiva, con ogni morto palestinese giustificato dal governo israeliano come “reazione al terrorismo di Hamas” anche quando i morti hanno pochi mesi o anni…, con ogni brutale annientamento lento e inesorabile del popolo palestinese si afferma la volontà di prepotenza e di sopraffazione come unico pilastro su cui edificare il futuro di Israele e non si concede alla memoria della propria storia nessun varco per entrare nella politica dell’economia, degli affari, degli interessi e, di conseguenza, nella morale superiore di un sionismo che ha perso la sua originaria vocazione di unità del popolo ebraico e di nazione ed è diventato ciò che voleva combattere dopo la Seconda guerra mondiale.
Eppure esistono, nonostante tutto, gli “ebrei contro l’occupazione” e molti soldati si sono ribellati ad ordini che erano pure e semplici esecuzioni di condanne a morte, omicidi di Stato. Sui “refusenik” e sugli ebrei che si oppongo all’occupazione Israele può contare per costruire domani una società giusta, di convivenza e di rispetto reciproco, ridando lustro alle tante sofferenze patite sotto i tanti poteri statali nei secoli prima del nazismo e poi sotto i dodici terribili anni di torture e sterminio messi in pratica dal fanatismo hitleriano con la Conferenza di Wannsee.
MARCO SFERINI
16 maggio 2018
foto tratta da Pixabay