Ci sono tigri di carta e ci sono tigri invece vere. E non si tratta soltanto di felidi carnivori che vivono nella Savana. Sono metafore dall’ampio raggio, immagini che traducono una pratica del cambiamento che si esprime nel movimento, più o meno forte, aggressivo, talvolta pure violento, e che emerge dalla rabbia di quella classe sociale in cui lo sfruttamento è la cifra dell’insopportabilità del vivere.
Quella è la classe sociale che ha sostenuto l’antifascismo quando gli antifascisti lo avevano abbandonato. Quella è la classe che ha dato vita al partigianato, alla Resistenza, alla rivolta di popolo contro il regime fascista incancrenitosi su sé stesso, divenuto metastasi incurabile di un Paese ridotto a brandelli. Il cambiamento fa paura. Soprattutto a chi vuole continuare a mantenere lo status quo.
E se questo coincide con la preservazione di un potere assoluto, allora il cambiamento è la raffigurazione del terrore della fine di un mondo, di un secolo d’Italia che le si è rovesciato addosso come una sciagura, una catastrofe: una dittatura sommata ad una guerra di occupazione, di imperialismo, di razzismo, di deportazione, di sterminio.
Trascorso il tempo della totale immersione nella melma bellica, quello dei lutti di massa, delle famiglie distrutte, delle città sfibrate, delle economie invisibili, del quasi niente da mangiare, alla giovane nuova Repubblica Italiana toccò farsi carico dell’era della ricostruzione. Materiale e morale, civile, sociale, culturale.
Il cambiamento si prospettò, per qualche lustro, come una evoluzione condiscendente tra forze politiche anche molto diverse tra loro: ciascuna segnava il correre delle stagioni secondo una dimensione di massa, comprendendo il maggior numero di cittadini possibili in una onda partecipativa che, complice anche il riflusso del mal comune che affrattella molto di più delle gioie, innervava direttamente lo spirito costituzionale.
Il postfascismo era un reducismo non da quattro soldi, ma appariva certamente straccionesco e cialtrone rispetto al carattere sociale dei grandi partiti che avevano, alla fine, nella grande esperienza del CLN, riunito le forze, messo da parte le antitesi reciproche e dato la spallata al regime di Mussolini. Se vi fu sottovaluazione all’epoca è, oggi, molto difficile poterlo accertare. Lo si può dire, scrivere, ipotizzare. Ma ipotesi bella e buona rimane.
Abbastanza ovvio è il fatto che la polarizzazione mondiale mise in guardia i comunisti italiani dal prendere il potere. Se fosse accaduto, nonostante tutte le garanzie democratiche del caso, lo sbilanciamento tra Ovest ed Est si sarebbe evidenziato in tutta chiarezza e, comunque, anche soltanto per un fatto di mera geopolitica, non si poteva consentire che al governo dell’Italia andassero gli amici di Mosca.
Così, la tigre del cambiamento apparve sempre più minacciosa a quello Stato che si imbruttì al punto da scivolare nella repressione, nel doppiopesimo morale e politico: da una parte i campioni della libertà democratica occidentale, dall’altra i comunisti che, pur avendo scritto la Costituzione insieme a tutti gli altri partiti antifascisti, vennero percepiti del gelido mostro dello Stato come avversari, come nemici.
Avversari certamente, se si fa riferimento alla competizione senza soluzione di continuità con la Democrazia Cristiana prima ed il primo centrosinistra poi. Nemici se, invece, come viene molto bene evidenziato nel libro di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, dal riassuntivo titolo “La tigre e i gelidi mostri” (Feltrinelli, 2023), il riferimento si sposta a destra, in quel chiaroscuro in cui nascono i nuovi protagonisti di una stagione di omertà, di doppiezze e giochi spionistici in cui il postfascismo non rinnega e non restaura, ma intende sovvertire.
O, quanto meno, intende fare la parte di chi può guadagnarsi un posto al sole della nuova politica ialiana compiacendo le amicizie d’Oltreoceano: anche quelle che conserva nei fuggitivi nazisti scappati in America Latina, ma soprattutto il filo diretto con una complicità nordamericana che ha tutto l’interesse a prevenire la minaccia comunista. Così nascono le “reti di protezione” che sono degli interstizi insidiosi per la democrazia.
Si insinuano dentro le pieghe di un ordine repubblicano che qualcuno vorrebbe riportare al repubblichino, mentre ad altri basterebbe una dittatura militare, come quella che i greci conosceranno di lì a qualche decennio… Vi è da riconoscere che, nonostante le pulsioni conservatrici, la Democrazia Cristiana, anticomunista per eccellenza, non avrebbe mai accettato un golpe che rovesciasse la Repubblica fondata anche da De Gasperi.
Così come vi è da riconoscere altresì che il tanto temuto “pericolo comunista” era più che altro tema di propaganda tutta interna allo scenario un po’ bislacco della politica italiana, visto che le posizioni internazionali si andavano stabilizzando, la Cortina di ferro era calata sull’Europa e, almeno dopo il 1949, la divisione diventa netta e dai contorni praticamente irreversibili. Per lo meno sul momento e, senza dubbio, in una prospettiva di non breve periodo.
Sarà, infatti, così, con vicende alternissime, fino al 1989. I comunisti di Togliatti guardano all’URSS ma non pensano, simultaneamente, al sovvertimento della democrazia che hanno conquistato con i tanti morti in montagna. L’accettazione delle regole democratiche è – si va scrivendo e discutendo in quegli anni del dopoguerra – un passaggio necessario che avvicina al socialismo. La forma repubblicana stessa ne è la dimostrazione.
Per paradosso proprio storico, mentre la monarchia viene messa da parte senza colpo ferire, con una consultazione referendaria, dando prova di una grande maturità democratica tuttavia ancora poco diffusa come concetto propriamente tale, in quanto novità assoluta nel panorama politico nazionale (vent’anni di dittatura non si cancellano in pochi mesi…), i decenni di fondazione della Repubblica sono quelli in cui le “reti di protezione” anticomunista si diffondono.
C’è della pretestuosità in tutto questo? È abbastanza evidente, perché manca il pericolo. Nemmeno l’attentato a Togliatti porta l’Italia dentro quella nuova guerra civile che i fascisti sognano come riscatto revachista e i militaristi nazionalisti come modo per sbarazzarsi del PCI e della sua crescente influenza sociale e civile. L'”Operazione Gladio”, organizzata dalla CIA, è ormai un dato storicamente acclarato.
I tentativi di rovesciare l’ordinamento democratico sono il proseguio di una storia della destabilizzazione congiunta tra neocapitalismo americano e neofascismo italiano: si vuole impedire che la classe lavoratrice abbia un ruolo primario nell’economia del Paese, che i sindacati si rafforzino, che il PCI sia il motore di questo progetto pure riformatore, ma comunque rivoluzionario per i tempi che tenta di precorrere. E per impdirlo si fa ricorso alle stragi.
Per impedirlo si assoldano i killer che non si nascondono nemmeno dietro l’eversione nera. Si prova a dare la colpa agli anarchici per le bombe; come si tenta di accusare gli studenti di essere degli eversori insieme agli operai. I violenti sono loro, mica quelli che pianificano la “strategia della tensione” a tavolino e la fanno realizzare dai prezzolati ammiratori del primo come dell’ultimo mussolinismo.
Il libro di Dianese e Bettin ha un sottotitolo: “Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia“. “D’insieme“. E’ la chiave della trattazione articolata di una analisi che mette insieme i pezzi apparentemente slegati fra loro della storia repubblicana: da Gladio alle stragi. Piazza Fontana, Italicus, stazione di Bologna, bombe, uccisioni, trame nere e piduismo, eversione di destra e militarismo. Servizi segreti deviati e neofascismo, tentativi di colpi di Stato rimasti tali perché è squillato un telefono al di là dell’Atlantico…
Se la verità in assoluto rimane avvolta da un alone di tenebroso mistero, oggi è proprio la composizione del puzzle che permette di vederne sempre meglio la figura nella sua interezza a chiarire meglio il ruolo dell’Occidente nei confronti dei governi che si sono succeduti alla guida dell’Italia postbellica, così come quello dell’URSS verso i comunisti italiani. E si noterà che accenti di tentativi di indipendenza dai rispettivi poli sono stati azzardati.
In alcuni casi i democristiani e i socialisti hanno segnato qualche punto a favore della democrazia, in altri si sono dimostrati particolarmente devoti alla causa del capitalismo occidenale. Parimenti, il PCI, dopo la morte di Togliatti, avvia una riflessione critica verso l’esperienza sovietica che culminerà con la stagione berlingueriana, saggiamente pragmatica ma non per questo meno idealista (nel senso più nobile del termine).
Con quel mostro dell’Est, che tale veniva dipinto dalla prima propaganda democristiana del dopoguerra, l’Italia ha sempre mantenuto relazioni diplomatiche, ha commerciato e ha impiantato fabbriche. La FIAT per prima faceva fior di affari con il mercato sovietico e con i paesi anche cosiddetti “non allineati“. Ciò che premeva a chi propugna la destabilizzazione della democrazia era il rimpicciolimento del potere crescente della classe lavoratrice.
Era la capacità di sostanziarsi di una democrazia attraverso le giovani generazioni che, negli anni ’60 e ’70, daranno prova di un vigore degno della rivoluzione culturale mondiale che permeerà la società al punto da trascinare il sistema sulla soglia del compromesso. Sarà quello il crinile dirimente, il sognato punto di non ritorno di un mutamento a centottanta gradi che apparirà, a poco a poco, sempre meno vicino, logorato dal liberismo nascente.
Una torsione perversa del capitale che comprende il rischio a livello globale e fa la sua controrivoluzione. Il titolo del libro ci riporta, per chi ha letto un po’ Nietzsche, alle predicazioni di Zarathustra: «Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: «Io, lo Stato, sono il popolo».
Nella nostra Costituzione vi è una distizione sottile, eppure importantissima, tra Stato e Repubblica. Se vogliamo, oggi, dopo i cambiamenti operati nella seconda parte della Carta del 1948, è ancora più facile da spiegare: là dove, al Titolo V, articolo 114, si dice che la Repubblica è costituita oltre che dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane e dalle Regioni, anche dallo Stato.
Nella prima stesura della Costituzione questa specificazione finale non è contenuta: «La Repubblica si riparte in regioni, province e comuni». Dalla ripartizione si è passati alla costituzione. Di per sé non cambia molto, se non lessicalmente. Ma in una Carta costituzionale la forma è sempre sostanza. La distinzione antica separava la funzione dello Stato da quella della Repubblica, conferendo al primo il ruolo di rappresentanza della seconda.
La Repubblica tutela, riconosce, garantisce, promuove i diritti di tutte e di tutti. Lo Stato li deve mettere in pratica. La Repubblica è la forma dello Stato, è l’unità tra il popolo e le istituzioni. Lo Stato sono le istituzioni. Quando Zarathustra – Nietzsche si lamenta e anatemizza contro lo Stato, lo fa perché detesta la perversione del potere. Che è il contrario della repubblica.
Ecco, il libro di Dianese e Bettin, nel ricostruire doviziosamente la travagliata “notte della Repubblica” di zavoliana memoria, induce anche a riflettere sul significato primo tanto della stessa quanto dello Stato italiano. Del suo rinnovamento postbellico, dei suoi fallimenti così come dei suoi successi. Non ai posteri, ma noi che vi viviamo all’interno, se non l’ardua, almeno la pietosa sentenza.
LA TIGRE E I MOSTRI GELIDI
UNA VERITA’ D’INSIEME SULLE STRAGI POLITICHE IN ITALIA
MAURIZIO DIANESE, GIANFRANCO BETTIN
FELTRINELLI, 2023
€ 19,00
MARCO SFERINI
8 maggio 2024
foto: particolare della copertina del libro
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