La teorizzazione di lungo corso dell’assenza di una alternativa

L’inevitabilità degli eventi è diventata l’ineluttabilità di sé stessa. Se si prova a disaminare, in questi ultimi decenni, tutto quanto è accaduto sul piano internazionale, con le ricadute ovvie...

L’inevitabilità degli eventi è diventata l’ineluttabilità di sé stessa. Se si prova a disaminare, in questi ultimi decenni, tutto quanto è accaduto sul piano internazionale, con le ricadute ovvie sui singoli poli economici e, in particolare, su aggregati pseudo-confederativi come l’Unione Europea, una delle prime considerazioni che si possono trarre è che il destino del mondo sembra affidato ad una sorta di fato moderno impossibile da condizionare con le lotte dal basso, con anche mobilitazioni di massa significative.

Eppure, la storia dell’oggi è il frutto di tutta una fattispecie complessa di intersezioni di lotte che nel recente passato hanno preso spunto da importanti esempi del Novecento e che, proprio nei passaggi più dirimenti dell’attualità dei singoli grandi problemi odierni, sono stati la bussola di orientamento proprio per una parte della politica che ha sfuggito la compromissione ma che, purtroppo, non ha potuto evitare il compromesso.

Perché queste non appaiano parole vuote, basta fare qualche esempio calato nei rapporti tra rappresentanza istituzionale ed economia: tutti, o quasi, i dettami di Bruxelles e Francoforte sono inviati al nostro Paese, come anche ad altri dei Ventisette, seguendo gli iter prescritti dai trattati. La democrazia, quindi, regnerebbe sovrana nell’Unione Europea e non avrebbe di che essere oggetto di contestazione; se non fosse che i vincoli comunitari hanno per riscontro il pagamento di penali piuttosto alte.

Vale il principio, già pedissequamente osservato dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ad oggi, del “There is no alternative” (in acronimo: TINA), secondo cui il presupposto per il funzionamento del sistema capitalistico, dell’economia di mercato, degli scambi merceologici e della stimolazione della concorrenza, si basa sulla varibilità borsistica, sulle fluttuazioni monetarie e, quindi, pazienza se per stare dietro a tutto questo si devono comprimere libertà e sacrificare diritti umani, sociali e civili.

La teorizzazione dell’assenza di qualunque alternativa a quello che Marx chiamava “lo stato di cose presente” è in pratica la seconda parte di un modernissimo dramma del pensiero unico che, a partire almeno dal principiare del liberismo nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento, ha raccontato al mondo che eravamo sul limitare della Storia dell’umanità e che, quindi, ciò in cui ci trovavamo – e in cui tutt’ora siamo – è il massimo raggiungibile in termini di diritti, ma non sicuramente di doveri.

Se così fosse, la classe imprenditoriale e finanziaria, che ha il controllo dell’economia perché detiene la proprietà privata dei mezzi di produzione, non potrebbe più esigere nuovi sacrifici da parte delle maestranze, di un mondo del lavoro che viene indotto a ritenere di essere nelle possibilità di permettersi qualunque bene lussuoso o speciale e di poterlo fare sgomitando tra i propri simili, facendosi largo a suon di ruffianerie e prebende indebite.

L’Italia degli anni del dopoguerra si è via via uniformata a questa teorizzazione di completa invisibilità dell’alternativa, tanto da diventare uno dei più fedeli alleati di un occidentalismo statunitense e filo-NATO, pur con qualche distinzione – almeno ai tempi dei governi andreottiani e craxiani – proprio in relazione alla politica estera e, nello specifico, per quanto riguardava la tragedia del popolo palestinese.

Veniamo qui al punto che ci interessava esprimere. La dura cristalizzazione del principio di assenza dell’alternativa è divenuto, da potente punto di appoggio del liberismo di fine secolo e di inizio del nuovo millennio, l’escamotage più pratico per permettere all’Occidente di creare i presupposti di una morale universale, simile a quella con cui l’Europa quattrocentesca e seguente ha espanso il suo dominio sul mondo intero, conquistando praticamente tutti i continenti nel corso di cinquecento anni.

La chiusura del ciclo di fine degli spazi bianchi sulle mappe geopolitiche ha coinciso con la competizione economico-politica, e dunque con una nuova fase di corsa colonizzatrice e di espansione dei mercati, che si è aperta di conseguenza nel Secolo breve, costringendo il capitalismo ad una resa dei conti prima di tutto ad ovest, per poi riguardare anche il lontano est: dal Medio Oriente all’Asia. Anche in queste dinamiche, in cui il protagonismo delle guerre si è fatto primattore, la mano invisibile del mercato ha governato i mutamenti.

L’imperialismo americano ha varcato le soglie dell’Atlantico, dopo aver interessato le zone caraibiche, quelle messicane e quelle latine del sud del Nuovo mondo. Nella parte asiatica, dalle Hawaii alle Filippine, dove non era arrivato l’Occidente europeo, ha messo le sue bandierine la Repubblica stellata. La Storia, quindi, vista sotto questa lente microscopica (e, quindi, al di là del vetrino, macroscopica), ha di per sé reclamato un ruolo di agente delle azioni umane e si è fatta metodo di sé stessa.

Le guerre globali, dalla Prima guerra mondiale in avanti, non sono più state un’eccezione nel cammino di un progresso altrettanto concepito come ineluttabile (quindi senza alternativa), ma una vera e propria regola del confronto tra gli Stati, tra le potenze post-moderne, dentro le altalenanti crisi di un mercato in espansione ma pure in profonda contraddizione rispetto ai livelli di saturazione della domanda davanti ad una produttività irrefrenabile.

L’Europa che oggi viviamo è la conseguenza di una inevitabilità della Storia novecentesca che non trova altro sbocco per l’esistenza dei cosiddetti “valori occidentali” se non l’affiancarsi alla potenza americana e rivendicare con essa una primazia mondiale sul terreno ovviamente economico, su quello politico (facendo sperticatamente l’elogio della democrazia come pietra angolare della civiltà) e, nemmeno a dirlo, sulla sua protesi militaristica che fa della guerra l’uniformità a cui devono adeguarsi le relazioni tra gli Stati.

L’economia di guerra, infatti, è prima di tutto una declinazione supermoderna del liberismo continentale europeo, dopo esserlo stata di quello americano. Prontissima ad essere pars construens di una narrazione che viene proposta come evidenza dei fatti e che, invece, è una doppia morale cinica, bara e pantagruelicamente capace di inglobare qualunque tipo di contraddizione per trasformarla in una piattaforma affaristica e in una nuova occasione.

Così è avvenuto, ed avviene, per la guerra in Ucraina, mentre la storia si ripete in Medio Oriente e offre al multipolarismo mondiale l’occasione per una contesa del crocevia principale tra Occidente ed Oriente. Sulla pelle dei popoli – potrà anche sembrare banale e scontato affermarlo o scriverlo, ma tant’è così è… – si giocano queste partite per una supremazia che mette insieme un nuovo ordine globale in cui il multipolarismo scemi gradualmente per lasciare il posto ad una nuova stagione di dominio americano.

Speciale cartina di tornasole in questi casi è il conflitto mediorientale che, dalla carneficina genocidiaria di Gaza, si estende al Libano e tenta di coinvolgere a pieno titolo l’Iran. Il ruolo di Israele è, così, il “There is no alternative” in questione. Si fa presto a verificarne l’utilizzo strumentale da parte del governo di Benjamin Netanyahu: ogni dichiarazione del gabinetto di guerra della destra sionista è improntata alla sopravvivenza dello Stato ebraico in mezzo ad una coalizione di nemici che lo vorrebbero annientare.

Se i propositi sono quelli, la risposta è uguale e contraria: al mondo intero Tel Aviv dichiara, con la sua guerra asimmetrica, che i palestinesi sono ospiti nella loro terra e che dovranno essere, prima o poi, ridotti a piccole comunità integrate nel Grande Israele e che per i nemici ai margini dello Stato, al di là dei suoi confini e in loro prossimità (come nel caso di Hezbollah), non c’è tregua che tenga, non c’è pace possibile. Appunto: There is no alternative.

Ciò che spaventa i governi e i grandi agglomerati economico-finanziari è la via d’uscita dalla crisi che loro stessi hanno generato e che contribuiscono a mantenere con una instabilità permanente a cui non intendono dare una soluzione. Perché la soluzione li metterebbe nella condizione di lasciare il posto ad una nuova fase ed epoca di pace che, certamente, consentirebbe a quella democrazia che si attribuiscono di esprimersi compiutamente e di realizzarsi in quanto tale.

Non ne verrebbe fuori nulla di buono per chi intende invece la democrazia come espressione formale delle istituzioni da piegare ai veri interessi a cui gli Stati devono fare da vigili sentinelle dello status quo iperliberista. L’assenza di una alternativa può essere interpretata dal capitalismo imprenditoriale e finanziario, così come dai governi, in chiave risolutoria per le evidenti tendenze opposte che animano la dialettica tra i poli che si contendono l’egemonia globale.

Ma, in realtà, proprio il soffocamento di qualunque possibilità altra, di qualunque ipotesi di compromesso interclassista e interpolare tra le potenze extracontinentali emergenti, non fa che dare adito ad una ulteriore strozzatura per un sistema che incespica nella crisi eco-insostenibile davanti alla quale non vi è più molto margine di manovra. Il bellicismo, il riarmo, la corsa al nucleare di nuova generazione, non saranno risolutivi.

Le contraddizioni strutturali permarranno e segneranno, passo dopo passo, l’accrescimento del livello di scontro attuale. Lo si può constatare tanto in Ucraina quanto a Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Del resto, si può essere tanto ingenui da pensare che chi deve costituzionalmente (perché è nella sua essenza autoconservativa) respingere qualunque alternativa a sé stesso possa farsene al medesimo tempo promotore?

Pare chiaro che se una alternativa è necessaria, questa non può che rinascere da un grande movimento “rivoluzionario”, nel senso prima di tutto etimologico del termine: di innovazione anzitutto, di trasformazione e di cambiamento a centottanta gradi di tutto ciò che ci circonda. Lavorare a questo progetto di rovesciamento dell’esistente è compito di una sinistra antiliberista che deve fare argine alle destre prepotentemente autoritarie e, parimenti, lottare per il miglioramento delle condizioni di mera sopravvivenza di miliardi di salariati, di miliardi di nuovi poveri.

L’alternativa la costruiamo noi progressisti, noi comunisti e libertari. Non ci arriverà mai né dal cielo contemplato astrattamente, né dalla terra distrutta fin dentro la sua più bella, complessa e dinamica natura.

MARCO SFERINI

4 ottobre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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