La strategia di Trump: pax repubblicana e guerra altrove

I toni sono quelli da ritorno della guerra fredda: scambi di accuse, presunti fraintendimenti, politiche di spionaggio che, di questi tempi, oltrepassano i classici microfilm delle pellicole di 007:...

I toni sono quelli da ritorno della guerra fredda: scambi di accuse, presunti fraintendimenti, politiche di spionaggio che, di questi tempi, oltrepassano i classici microfilm delle pellicole di 007: si sconfina ben oltre, nella rete, in quel mondo di pirateria informatica che sembra nessuno riesca preventivamente a controllare.
Snowden ce l’ha, del resto, spiegato molto bene e anche le anticipazioni di Wikileaks non sono state da meno nello svelare ciò che potevamo solo immaginare esistesse e venisse prodotto. Ed invece era ed è tutto reale.
La guerra si fa oggi anche a colpi di “hacker”, di pirateria informatica.
Ma si fa anche ricorrendo alle classiche armi di distruzione di massa, correndo al riarmo a tutti i costi per mostrare i muscoli, la potenza nucleare. Torna come una maledizione lanciata dal passato verso il futuro. Torna dopo la fine dei blocchi statali di un tempo e la riformulazione dei medesimi su nuovi assetti strategici.
Donald Trump, così, lancia la sfida a Vladimir Putin: aumenterà la spesa per il riarmo americano di 54 miliardi di dollari rispetto ai precedenti investimenti. Il Cremlino non la prende bene e ribatte che non starà fermo a guardare ma, anzi, “reagirà”. Cosa significhi precisamente questo verbo è ancora presto per capirlo, dirlo e commentarlo.
Ma una cosa è certa: nessuno dei due contendenti la moderna globalizzazione dei mercati starà a guardare l’altro sottrargli fette importanti di dominio su gasdotti, petrolio e ricchezze primarie per la supremazia economica su vaste zone del Pianeta.
Trump non vuole soltanto mantenere viva la promessa che aveva fatto a Philadephia nel discorso del 6 settembre 2016: vuole prima di tutto agire su due piani, estero ed interno. Internamente deve rimettere mano allo squilibrio del “suo” (tra virgolette, necessariamente) partito che è diviso tra i sostenitori della maggiorazione di una spesa per la difesa della Repubblica stellata e i sostenitori del privatismo, contrari a qualunque incentivo del settore sociale pubblico.
Con l’aumento delle spese militari a scapito dei tagli alle spese per il Dipartimento di Stato e per altri ambiti governativi, Trump accontenta anzitutto il Partito repubblicano e, in un colpo solo, fa felice anche tutto lo stato maggiore americano, le agenzie federali che controllano tutto e tutti e contribuisce a generare nel senso patriottico statunitense un sentimento di rivincita come potenza mondiale sopra ogni altra nazione al mondo.
Non appare come falcidiante lo stato sociale ma come difensore della patria, riaffermando l’imperativo categorico: “Fare ancora grande l’America”.
Nell’immaginario collettivo il nemico numero uno non è tanto Putin (comunque caro a Trump in qualche modo; repetita iuvant: diceva Protagora che “il simile conosce il suo simile”) quanto il Daesh, lo Stato islamico sedicente califfato che vorrebbe arrivare alle proporzioni territoriali di un Impero Ottomano di nuovo modello.
La conquista della cosiddetta “capitale” del califfato, Raqqa, è quindi il punto sulla carta geopolitica da segnare come cartina di tornasole e termometro politico dell’amministrazione Trump. Ma qui il sogno di conquista si infrange con le difficoltà sul terreno: che tattica adottare? Più truppe sul terreno? Più finanziamenti ai ribelli anti-Assad? Più bombardieri e droni?
I generali del Pentagono discuteranno, carte sui monitor, il da farsi: intanto il presidente può proclamare ai quattro venti che difende l’America, che la Russia non lo spaventa e che lui è il migliore amico di ogni cittadino che voglia combattere il terrorismo.
Anche su questo terreno, quello strettamente legato alla lotta al terrore, si gioca una partita che va oltre le enunciazioni e le proposte di pacificazione del Medio Oriente. Nessuno può più credere alla buona fede dell’amministrazione americana in merito. Ma forse di nessuna cancelleria mondiale.
Chiunque riesca ad infilarsi nel puzzle mediorientale finirà per perdere qualunque bontà e qualunque fede: sentirà profumo di petrolio e di gasdotti e tutto ripartirà da capo. Come ai tempi della prima guerra del Golfo, quando tutto questo pandemonio ebbe tristemente inizio.

MARCO SFERINI

1° marzo 2017

foto tratta da Pixabay

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