Una riconciliazione con la vita, con l’esistenza molteplice e una al tempo stesso: quella dei tanti desideri e delle tante voglie espresse, inespresse, represse, alla luce del sole o reconditamente rinchiuso dentro l’abitacolo di una interiorità gestita come uno scrigno prezioso di cui si ha timore di aprire la serratura.
Una ondata di colori che risintonizzano con un etere di fantasticità, di liberazione: dentro quel lungo cammino arcobaleno, le menti e i corpi, i cuori e i pensieri si infondo e si confondono, marciano senza marciare, proseguono una storia comune che parla di molte sofferenze, di quotidiane discriminazioni, eppure anche di lotte senza tregua, di partigianati moderni della voglia di vivere e non soltanto di esistere.
Il Pride è vita, è ricusazione dell’odio, del pregiudizio che lo infonde e che confonde le menti, che altera le percezioni, che disarticola la semplicità che è difficile a farsi di una uguaglianza che ha fatto passi da gigante in questi ultimi ottant’anni, ma che ancora tanti ne deve fare per affermarsi come una incontrovertibilità da dato di fatto.
Se almeno potesse assumere i connotati della tradizione, della consuetudine immarcescibile, di tutto ciò che non può essere più oggetto di discussione, come ad esempio la schiavitù qui nella sacralità mercatista del mondo occidentale: perché altrove invece i bambini, le donne e gli uomini anche anziani sono ridotti molto spesso a moderne forme e sostanze di schiavismo ipertrofico, capace di convivere con società tanto evolute quanto in evoluzione.
La gaiezza del Pride è un’onda rivoluzionaria, una intercapedine iridiaca in cui non è permesso l’ingresso alla stigmatizzazione delle differenze, ma è legge scritta e non scritta la valorizzazione di ogni particolare e di ogni particolarità delle pulsioni. Non c’è censura di comportamenti nel serpentone dell’orgoglio LGBTQIA+.
Le lettere si aggiungono all’acronimo, perché scopriamo sempre più identità che fuoriescono dai corpi stessi, per diventare evidenze, per essere la cattiva coscienza di una parte di popolo che adora un conservatorismo clericaleggiante, familistico all’ennesima potenza, reazionario politicamente parlando, intriso di dogmaticità regressive, leva di una macchina del tempo che ci riporta ben prima di Stonewall, ancora avanti le proteste delle suffragette.
C’è un novecentismo nostalgico in quello che sta intorno al Pride e che si fa politica di Stato, di governo, amministrazione della nazione e dei territori locali. C’è una retrività che si forma nel ventre molle di un Paese in cui il fascismo è la penombra degli istinti e il sottile substrato delle ipocrisie che si pretenderebbero mutare in ragionamenti e disquisizioni cattedraticamente elargite dalle televisioni, dal web, dai discorsi parlamentari.
La destra occlude ogni pertugio attraverso cui possa passare la luce di un rinnovamento e di una innovazione, di una espansione dei diritti civili così come di quelli sociali. Istilla nel suo popolo l’idea perversa che il nemico è la modernità intesa come innovazione, come aggiornamento, come riconsiderazione dei recinti concettuali, morali, (in)civili e antisociali dell’ancora recente passato-presente.
Il Pride sfila senza pretendere di contaminare il grigiore degli acquartieramenti delle destre nella solennità dei palazzi istituzionali, là dove la Repubblica viene vilipesa e trattata alla stregua di una estranea in casa propria: la sovranità popolare viene assunta dal governo come delega permanente, ragione incontestabile che gli viene per volontà di una maggioranza di una minoranza di elettori.
Il Prida sfila pretendendo di contaminare tutto il resto, aprendo le brecce del dubbio, allargando le feritoie delle coscienze in fermento, suggerendo l’insuggeribile, parlando senza alcun infingimento, mostrando ciò che postfascisti, leghisti e cattolici dei family day non vorrebbero venisse mai mostrato e dimostrato: che la vita vera è fatta di cambiamenti continui e che nulla è dato mai per scontato a lungo tempo.
Lo sappiamo bene, perché i diritti vengono messi in discussione ogni volta che finisce il breve spazio temporale di un governo e, mediante una nuova truffa elettorale, si permette al popolo di pensare di aver eletto un esecutivo, un presidente del Consiglio e, quindi, di aver esercitato una delega sovrana e sovraneggiante, che osserva, guarda, tiene sott’occhio l’operato di chi è salito a Palazzo Chigi.
Ma la destra prova da otto mesi a rifare il giochetto dell’utilizzo della democrazia per superare la democrazia stessa. Nel suo grigiore e nei chiaroscuri delle sue politiche di guerra atlantica in campo estero e di guerra ai poveri (non alla povertà) in patria, i peggiori governanti di qui a lustri e lustri, mettono a soqquadro sostanza e forma, concretezza e idealità della Repubblica.
Uguaglianza e diseguaglianza si confondono fra loro e nulla di quello che viene detto è nemmeno minimamente riferibile ad un briciolo di coerenza e di aderenza ai fatti, all’oggettività delle conseguenze. Poi arriva giugno, arriva la voglia di liberazione e di resistenza, simile al 25 aprile, simile al Primo maggio, fatta della stessa carica rivendicatrice, vindice di un inverno buio, nella notte dei diritti tutti e di tutte e tutti.
Dove prima c’era lo stigma ora c’è la libera sfrontatezza della ribellione a tutto campo. Dove prima c’era preservazione della cultura giudaico-cristiana (una invenzione antistorica tutta quanta frutto del culturame malamente esibito da populisti, sovranisti e finti nazionalisti) ora c’è il riconoscimento reciproco, vicendevole, plurale, plurimo e privo di qualunque confine ideologico o politico di qualsiasi credo, di qualsiasi filosofia, di qualsivoglia teologia della liberazione o dell’inclusione.
Il Pride spezza la monotonia del logorio della vita quotidiana, fatta soltanto di sterili polemiche, di discussioni che alzano gli indici di ascolto e di commenti sui social che degenerano nella più orribile manifestazione del piattume cerebroleggiante di chi per esistere, per sussistere grazie ai meme, per darsi un po’ di mediocrità al posto della dignità, sputa sentenze onniscienti, maleficentissimi anatemi contro l’intimo femminile per uomo, il rossetto provocante, le parrucche colorate, i micropiselli o le fighe inventate dalla chirurgia iperscientifica.
Il Pride fa il suo nobilissimo mestiere: crea ambiguità dove c’è certezza, disordina la perfezione, altera gli equilibri delle convinzioni inincrostabili, ha l’effetto del decalcificante per la lavatrice, togliendo l’inutile dall’ottundimento mentale e regalando nuova energia pulente per i pensieri che si mettono nella vorticosità centrifuga del ragionamento critico senza se e senza ma.
E’ questa la missione del ricostituente, dell’energizzante farmaco dell’orgoglio lesbico, gay, bisexual, transexual, queer, intersexual, asexual plus.
E’ questa la magnificente bellezza della libertà che ai Pride si respira, si condivide tra migliaia e migliaia di persone che si incontrano, si scontrano e si compenetrano anche soltanto visivamente: tutto è meraviglia, tutto è meraviglioso nelle sfilate arcobaleno. Non c’è nulla che stoni, perché i corpi parlano per noi: dagli sguardi alle movenze, dai gesti di una mano a quelli delle gambe che ballano.
I corpi parlano e ci dicono che siamo tutti, proprio tutti uguali. Non ci sono differenze sotto panno. Ci sono solo quando si separa la fisicità dai sentimenti o si costringono questi ultimi a stare rinchiusi in forme che sono prigioni: di incoscienza indotta dal pregiudizio sociale, di regola, legge, norma, diritto di Stato che vietano di poter amare chi si vuole, crescere dei figli nel rispetto loro e di tutti gli altri.
Le gabbie delle prevenzioni imperscrutabili delle destre rappresentano una parte della popolazione italiana. Una parte.
E, al momento, prevalgono politicamente ed elettoralmente, per la saldatura che si è creata tra coniugazione del disagio sociale nelle risposte date dal semplificazionismo armante della lotta tra i poveri, dove il tuo nemico non è il padrone o il ricco, ma il migrante, l’omosessuale, il trans, il rom, il diverso sempre e comunque, le controriforme che provano a rimettere indietro le lancette della democrazia repubblicana.
Noi non siamo soltanto – come scriveva Rosa Luxemburg – i milioni del cui lavoro vive l’intera società. Noi siamo i milioni dei cui diritti si nutre un intero popolo, una interezza globale umana, per emanciparsi dal dominio del patriarcalismo, del maschio sulla femmina, del padrone sullo sfruttato, dell’essere umano sugli animali e la natura tutta.
Noi siamo l’avanguardia di un movimento molto più vasto di quel che sembra e che, a ben vedere, è già imponente e dirompente. Il Pride ci regala entusiasmo, voglia di vivere, di amare, di godere e di afferrare il senso proprio dell’esistenza: essere il più felici possibili. Ma tutte e tutti. Non solo una stretta cerchia, non una comunità a discapito di un’altra. Questa è rivoluzione, perché spariglia le carte, destabilizza ogni sicurezza, decostruisce per ricostruire.
Viviamone e facciamone vivere chiunque ci stia intorno. Una nuova società dei diritti si fa strada anche così nel tremendo futuro di un pianeta in rovina, di una società fintamente moderna e terribilmente decadente.
MARCO SFERINI
11 giugno 2023
foto: screenshot You Tube