La conferenza stampa tenuta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi dà come l’impressione d’essere stata una forzatura che lo stesso superbanchiere continentale ha fatto nei propri confronti, prima di tutto del suo “stile” comunicativo.
Nelle prime settimane di governo, ci aveva abituato al silenzio monastico, alla clausura delle parole, al mantenimento in vita di un mantra non recitato, di una geremiade non udibile eppure vaneggiante nell’aere, tra le pieghe dei giornali, enfatica mitizzazione per perpetuare l’autorevolezza incontrastata e incontestata di un uomo abituato a mostrare risultati e non, per l’appunto, a perdersi in parole.
La democrazia ha però bisogno dell’interazione, del dialogo, di tante frasi, di millanta parole. I silenzi di Draghi iniziavano a lasciare spazio alle rivendicazioni salviniane sulle riaperture, per riesumare il ruolo di paladino di industriali e ceto medio; allora si è corsi al riparo, mentre si strutturava la cabina di regia governativa sull’emergenza sanitaria per contrastare il Covid-19 con quello tsunami di vaccinazioni decantato, promesso, ripromesso e abbondantemente sottolineato in ogni intervista televisiva o cartacea ma che, ad oggi, non ha ancora visto il benché minimo segnale di partenza.
Draghi, insieme al generale Figliuolo, lasciando qualche passo indietro i ministri, ha iniziato a parlare: in solitaria, unidirezionale comunicazione prima, senza contraddittori giornalistici, per aprirsi infine alla consuetudine democratica delle conferenze stampa. Ma proprio queste, o meglio l’ultima di queste, è apparsa piena di contraddizioni nello spiegare le ragioni che hanno mosso il governo a comportarsi in tale o tal altro modo rispetto a rapporti politici interni ed esteri, dentro la cornice tutta draghiana di solerte acribia nel misurare le parole ogni volta che le domande dei cronisti riguardavano aspetti meramente tecnici del piano vaccinale o degli interventi sulle rimodulazioni dei conti di bilancio per far fronte alla marea di ristori reclamati dalle categorie imprenditoriali e commerciali.
Draghi non manca di precisare compiutamente come la pensa sul piano economico e in merito agli interventi sul mondo del lavoro: non è per niente d’accordo con Landini sulla richiesta sindacale di prorogare il blocco dei licenziamenti fino (almeno) ad ottobre, rassicura le imprese così doppiamente, promettendo uno scostamento di bilancio che in larghissima parte andrà ad interessare il padronato e il grande commercio “in difficoltà“. Ovviamente, come è naturale che sia, nessun cenno a tassazioni progressive o a patrimoniali una tantum. Aspettarsi questo da Draghi vorrebbe dire aver perso il lume non tanto della ragione, quanto della capacità di leggere criticamente la figura stessa del Presidente del Consiglio e ciò che rappresenta agli occhi del capitalismo italiano e del sistema economico continentale.
La strana conferenza stampa di Draghi mette in luce la difficoltà di un grande esperto di finanza, di un banchiere internazionale nell’approcciarsi al governo di un Paese complicato come l’Italia, dove le forze politiche sono unite sotto un interesse disomogeneo: quello di stabilire, con una pennellata di tremenda realpolitik, un minimo di stabilità per il dopo-pandemia e creare le condizioni migliori per qualunque scenario si possa presentare nel dettaglio dei sondaggi.
I numeri apparenti (e appariscenti) dei tanti indagatori delle intenzioni di voto, consegneranno il dibattito interno alle analisi spicciole di una piccolezza della politica ispirata, ed al tempo stesso incline e piegata, alla spartizione del potere nel nome di una finta rappresentanza degli interessi sociali: le categorie politiche sono saltate tutte nella corruscante “unità nazionale” che ha accecato la visione disperata di milioni di italiani privi di un futuro, privati dello stesso nell’ultimo anno e mezzo a causa del disastro economico figlio di quello pandemico.
La conferenza stampa di Draghi è parsa, per questo, al di sotto delle aspettative, lontana dall’immagina del “salvatore della Patria“, del messianico capo di governo che tutto può fare, che centellina le parole e che invece è un profluvio di fattualità.
Fin qui il desiderio osservato con lenti dialitiche, ingannevoli per antonomasia, eppure così tanto affascinanti da convincere, per disperazione, decine di milioni di italiani a considerare Mario Draghi l’uomo di una Provvidenza che mancava, che si era dimenticata della miseria italica, immersa nella litigiosità politica tra il Conte uno e il Conte due, tra dualismi irrisolvibili giallo-verdi prima e rigurgiti di protagonismo di classe (di razza padrona) nella cromatura bitonale giallo-rosa (o rossa che dir si voglia).
Il merito della conferenza stampa bidirezionale, quella più consona alla democrazia sostanziale (almeno per quanto riguarda la libertà di parola, di scrittura, di critica e quindi anche di cronaca) è stato proprio questo: mettere a nudo il Draghi svestito dei panni del Super Mario, dell’eroe dell’Euro, della stabilità monetaria e quindi del solutore di enigmi impossibili per altri.
Draghi un merito almeno lo ha: dice ciò che pensa senza troppi infingimenti e, nella baraonda di domande che gli piovono addosso, che umanamente dimentica e deve appuntarsi, non esita a criticare un metodo di vaccinazione opportunistico, che fuoriesce da una logico più che altro di efficienza, di dimostrazione della bontà dell’organizzazione militar-governativa che vorrebbe arrivare a mezzo milione di vaccinati al giorno coprendo, prima di tutto, la popolazione più a rischio ultra ottuagenaria e, a risalire, quella dai 60 anni in avanti. Il bene comune si sposa alla logica dell’efficienza, perché ciò che conta è il risultato e questo, oggettivamente, se non lo sanno fare bene un banchiere internazionale abituato a far quadrare i conti dei grandi interessi globali e un generale che deve osare sempre, chi mai potrebbe meglio farlo?
Forse un politico? Indubbiamente sì, ma pare che oggi i governi democratici non guidati da esperti di finanza internazionale e fedeli liberisti, siano l’eccezione. La politica non deve polemizzare troppo: bisogna fare e fare bene e tutto si può e si deve sacrificare a questo obiettivo. Come se non fosse proprio delle istituzioni questo compito di realizzazione dell’ottimo e del massimo nell’interesse generale della popolazione.
Il ruolo di Presidente del Consiglio costringe già oggi Draghi a venire a patti con sé stesso e a interpretare quel ruolo che gli sta stretto ma che ha scelto di indossare “per il bene del Paese”, si intende. Non certo per dare al capitalismo italiano e continentale qualche rassicurazione in più in termini di gestione politica dei fondi statali a copertura dei disastri del liberismo pre-pandemia e di quelli causati nel biennio pandemico da una sincopata litania sulla necessità di mantenere le imprese in stato di salute per evitare ricadute sul mondo del lavoro. Salvo affermare compiutamente che il blocco dei licenziamenti non può protrarsi all’infinito, mentre ristori, tutele e protezioni dei profitti padronali, sì.
Aspettiamo altre conferenze stampa del Presidente del Consiglio, per vederlo sempre più banchiere nell’essere politico e sempre più politico nell’essere banchiere. E’ una legge apodittica, che risponde all’evidenza dei fatti, nonostante qualcuno guardi ancora dalle lenti ingannatrici dello scollamento visivo causato dall’illusione dell’assenza di conflitti di classe, di una vivibile e necessaria “pace sociale“. Al tempo del Covid-19 e del liberismo pronto a ripartire…
MARCO SFERINI
10 aprile 2021
foto: screenshot tv