La storica (e attuale) dicotomia tra Israele e la democrazia

Una rivolta democratica può essere tale se si intende per sommovimento, sollevazione e protesta la possibilità stessa, intrinsecamente inclusa nei concetti appena citati, di essere parte ed espressione concreta...

Una rivolta democratica può essere tale se si intende per sommovimento, sollevazione e protesta la possibilità stessa, intrinsecamente inclusa nei concetti appena citati, di essere parte ed espressione concreta di una critica tanto individuale quanto collettiva. In una democrazia moderna, il diritto di manifestare platealmente e diffusamente la propria contrarietà al governo, alle sue politiche e, quindi, diventare “opposizione sociale“, oltre che politica, dovrebbe essere un punto cardine per riconoscere le fattezze prime del sistema di bilanciamento dei poteri e di rispetto costituzionale tanto delle opposizioni quanto, più nello specifico, delle minoranze.

Alla luce di questa breve descrizione della fisionomia democratica di uno Stato, è sufficientemente evidente che Israele non appartiene a quella schiera di paesi che provano a coniugare la volontà popolare con la sovranità, la legittimazione del potere da una delega larga e richiesta ogni volta che vengano a mancare quelle minime condizioni parlamentari per esercitare il ruolo di governo della nazione.

Nonostante le enormi manifestazioni di dissenso che, popolarmente, si sono diffuse nell’intero piccolo Stato ebraico, ci si ingannerebbe se si ritenesse questa una peculiarità della democrazia israeliana che, a ben vedere, somiglia molto di più ad un regime fondato su un militarismo esasperato, su una interazione praticamente totalizzante fra le forze armate e le istituzioni governative, nonché la semplice, quotidiana vita di larga parte della popolazione.

Netanyahu si convince a “congelare” la riforma della giustizia, che avrebbe subordinato la magistratura al potere esecutivo, anche per le proteste di piazza, anche per la minaccia di una continuazione di uno sciopero generale accennato, che avrebbe bloccato per davvero una buona parte della produttività, dell’economia, dei trasporti, delle reti di collegamento col mondo esterno.

Ma, soprattutto, il premier israeliano teme il dissenso nell’esercito, teme la mancanza di un rapporto diretto e continuativo cone le forze armate che iniziavano a rifiutarsi di obbedire. Il governo del Likud è di destra estremissima, con partiti al suo interno come il “Potere ebraico” di Itamar Ben-Gvir, fanatico ipersionista, per cui non c’è spazio alcuno per le dimostrazioni di piazza tanto quanto non vi è alcuna possibilità di convivenza con il popolo palestinese.

Fanatismo religioso e oltranzismo nazionalista si mescolano in una voglia di repressione di una serie di manifestazioni che, per l’appunto, dovrebbero marcare il tratto democratico di quell’Israele figurato da tanti commentatori come l’unica democrazia moderna in Medio Oriente. Un modello di “occidentalità” che però stride, già di per sé, con le grandi mobilitazioni francesi che ostacolano l’applicazione della controriforma pensionistica di Emmanuel Macron.

La composizione sociale può anche somigliarsi, nonostante in Israele si scenda per le strade per fermare uno stravolgimento costituzionale, mentre nell’Esagono si continua a lottare per dei veri diritti sociali che stanno alla base di un sano rispetto istituzionale per l’uguaglianza pratica e non solo vagheggiata e vaneggiata dai liberisti.

Ciò che rende diametralmente opposte le piazze israeliane da quelle francesi o, anche, da quelle tedesche che si mobilitano per salari più dignitori (vedessero quelli italiani…), è l’obiettivo finale che, nonostante le differenze, potrebbe somigliarsi nel cercare di migliorare la qualità della vita per tutte e per tutti.

Ecco, se in Francia la lotta è – come recitava una vecchia canzone proletaria – “di tutti e per tutti” e ha come bussola la rivendicazione di diritti universali, senza distinzione alcuna di nazionalità, di etnia, di credo religioso, di ceto sociale, in Israele, a parte una discreta ma pur sempre esigua minoranza, chi scende in piazza oggi contro Netanyahu lo fa “solo” (molto tra virgolette, perché anche quelle manifestazioni meritano la giusta considerazione) per garantire un equilibrio di poteri a garanzia di una presunta democrazia che vale solo per gli israeliani e gli ebrei che vivono nello Stato fondato nel 1948.

Per le popolazioni arabe e, quindi, soprattutto per quella palestinese questa lotta è escludente a priori: non contempla i diritti di quelle migliaia di prigionieri che sono stati messi dietro le sbarre in un regime di “custodia preventiva” che è una eccezionalità nel diritto internazionale, una misura molto più politica che legalistica. Solo poche associzioni israeliane si battono in favore dei diritti di tutte e di tutti, senza distinguere tra cittadini dello Stato ebraico e cittadini palestinesi della Cisgiordania e di Gaza.

La sinistra parlamentare rappresentata dal partito Meretz praticamente non ha più voce alla Knesset dove, invece, domina una maggioranza (sempre più risicata) di teocratici nazionalisti, veri e propri integralisti sionisti che predicano il “grande Israele” a discapito, nemmeno a dirlo, di quel poco che rimane del territorio palestinese, circondato dai muri reali e da quelli impercettibili visivamente, immateriali rarppresentati dalle ruberie di ogni sorta di materia prima, essenziale per la vita del popolo di Arafat.

Se davvero la protesta del popolo israeliano fosse sinceramente democratica, dovrebbe essere permanente contro un governo che asseta e affama un altro popolo. I sindacati dello Stato ebraico dovrebbero proclamare scioperi generali non soltanto quando vedono in pericolo l’equilibrio tra i poteri del loro paese, ma anche quando loro governo e il loro esercito reprimono spietatamente le rivolte cisgiordane e della Striscia di Gaza nel sangue, proteggendo i coloni con una sospensione dei più elementari diritti umani.

Quella che oggi gli israeliani difendono non è una democrazia propriamente detta, perché per essere tale dovrebbe valere per tutti e non solo per una parte di chi vive in Israle e vicino ad Israele. Il governo di Netanyahu, questo è almeno un dato oggettivo e inconfutabile, è entrato in una crisi che ci si può solo augurare irreversibile.

Dai tempi della seconda Intifada, almeno a memoria, non si ricorda una repressione così vasta contro le proteste palestinesi, contro una resistenza che è nel pieno diritto di chi vive quotidianamente soprusi, rapine legalizzate e confermate da un diritto che quella Corte suprema “indipendente” ha sempre avallato, respingendo ogni richiesta di attenuazione della durezza dei regimi carcerari imposti dalle norme varate via via dai governi sempre più di destra (verrebbe da dire “fascisti“) di quella che gli occidentalissimi europei ed americani considerano – e devono considerare – la stella polare della libertà mediorientale.

Nessuno Stato è così virtuoso da poter essere dichiarato, almeno in quella parte del mondo, una vera democrazia o, comunque, un regime quanto meno populista, se non proprio popolare. Dittature di vario tipo si scorrono muovendo il dito su una carta politica che va dalla Turchia all’Arabia Saudita, passando per i regimi africani che sono appena limitrofi al groviglio di interessi reciproci e contrastanti al tempo stesso tra diversi Stati arabi e tra paesi che fanno parte, in modi uguali ed opposti, dell’area di influenza a stelle e strisce nella Mezzaluna fertile.

Noi possiamo anche applaudire al protagonismo popolare di questi giorni degli israeliani, e facciamo bene perché non si vedeva da tempo un sollevarsi così organizzato di critiche unanimi ad un governo tanto presuntuoso ed autoritario. Ma non possiamo, al contempo, dimenticare il ruolo delle forze armate, che abbiamo citato e che ribadiamo, perché se dobbiamo parlare di Israele come di una vera democrazia, per prima cosa dovremmo poterne parlare prescindendo proprio dalla funzione socio-politico-amministrativa dell’esercito.

C’è troppo militarismo nella vita giornaliera dei giovani israeliani che, anche nell’indistinzione dei colori della politica dello Stato ebraico, sono educati su una piattaforma che fa del nazionalismo esclusivista un elemento fondante dell’adesione piena alla comunità nazionale. E’ così, del resto, dal 1948, quando le varie formazioni combattenti per la costituzione e l’indipendenza di Israele vennero assorbite e quindi unificate nel costituito esercito del futuro Stato.

Lo si voglia o no, l’IDF è l’ossatura di Israele. Non lo è la Knesset… Questo è il punto sostanziale che premeva sottolineare e che spiega molto bene la disposizione totalmente repressiva dei governi nei confronti dei palestinesi e l’ostilità permanente verso il resto del mondo arabo.

Dunque, tornando alla riflessione iniziale, se una democrazia moderna, a far data dalla fine dell’ancien régime francese, si esprime soprattutto nella divisione dei poteri e nella sempre maggiore partecipazione popolare alla configurazione dei rapporti tra le istituzioni e nelle stesse, è evidente che Israele poco si attaglia ad entrare nel perimetro di questa definizione.

Questa è una interpretazione che esige tutta una serie di pesi e contrappesi che traballano persino nella grande Repubblica stellata permettendo tanto ad un Trump di arrivare alla Casa Bianca quanto agli altri presidenti (che si dicono “democratici“) di muovere guerre per procura, dopo quelle tante mosse per “esportare” proprio la democrazia.

La democrazia, da particolarità ellenica dell’antichità, pareva per un momento essere diventa nell’800 e nel ‘900 una felice intuizione moderna, una sorta di moda istituzionale a cui far arrivare anche le nazioni più retrive, conservatrici nel senso ovviamente politico del termine: perché nulla poi veramente può essere conservato e preservato da tutto e da tutti. Tutto si trasforma, muta, evolve o involte, ma niente rimane immobile.

La speranza, dunque, è che la minoranza israeliana che intende la lotta contro Netanyahu come lotta contro un regime antidemocratico e autoritario, repressivo e suprematista nel suo essere ciecamente nazionalista, nel suo pretendere una superiorità ebraica rispetto al resto dei popoli che gli sono limitrofi, possa farsi largo nell’opinione pubblica e fare della giusta rivendicazione di oggi sull’indipendenza della giustizia un trampolino di lancio per una ancora più energica mobilitazione contro la discriminazione del popolo palestinese.

Interessi economico-politici, strategie militari e compromessi mondiali per essere una potenza in un’area depressa da guerre civili annose, da invasioni, spartizioni, presunte liberazioni e nuove occupazioni ancora, sono una sorta di agenda antica e moderna al tempo stesso per Israele. La sua caratteristica è, prima di tutto, essere uno Stato militarizzato in ogni ambito della sua vita “civile” e istituzionale.

E’ davvero giustizia quella che sta a guardare la costruzione dei muri, il furto dell’acqua, delle terre, dei diritti umani fondamentali per poter semplicemente sopravvivere giorno dopo giorno? Una presunta democrazia che si circonda di prigioni a cielo aperto, che vive la sua politica facendo finta che non sia un apartheid simile a quello del Sudafrica di un tempo, può anche rivendicare per sé l’attestazione di Stato libero, ma non lo sarà mai veramente fino a che intorno a sé avrà risolto il secolare problema di convivenza e l’arroganza di pensarsi, sempre e soltanto, come il “popolo eletto“.

MARCO SFERINI

28 marzo 2023

foto: screenshot You Tube

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