La sorte dell’Europa appesa al filo sottile di quella della Francia

Quello che si potrebbe ormai chiamare “il paradigma francese” è, in realtà, il prodotto di una mutazione più articolata che riguarda l’intero continente europeo a livello politico ed istituzionale....

Quello che si potrebbe ormai chiamare “il paradigma francese” è, in realtà, il prodotto di una mutazione più articolata che riguarda l’intero continente europeo a livello politico ed istituzionale.

Le imminenti elezioni legislative nella République non hanno fatto altro se non dimostrare che l’insistenza delle ormai ex forze liberali nazionali e transnazionali sull’austerità e sulla pressione esercitata nei confronti dei ceti meno abbienti e più disagiati economicamente ha condotto alla destrutturazione del vecchio sistema di alleanze o, anche soltanto, ad un ancien régime che si dava per consolidato dai tempi della fine della Seconda guerra mondiale.

L’Italia, caso più unico che raro entro il medesimo contesto dell’Unione europea, ha separato la sua storia dal resto delle storiche nazioni continentali attraverso un avvicendarsi di scandali politico-economico-finanziari che hanno anticipato di decenni e decenni quello che sarebbe poi accaduto, abbastanza similmente, anche in Germania e in Francia.

Discorso diverso ancora per la Spagna, dove le ispirazioni bipolariste che hanno furoreggiato nel nostro Paese non hanno avuto lo stesso riscontro (per fortuna) e, quindi, il confronto non è ridotto ad una esclusiva dei partiti maggiori (nello specifico socialisti e popolari).

Cosa ci dice anzitutto ciò?

Che l’Europa non ha una politica sociale e civile comune, tanto meno economica e militare, quindi non ha un piano di condivisione delle scelte interne tale da uniformare i sistemi politici e creare, ad esempio, dei partiti che vadano oltre l’assise di Strasburgo e che, nei singoli Stati dell’Unione, siano la rappresentanza locale di una più consolidata, ampia e riconoscibile fisionomia di ideologie ed idee, programmi e azioni tanto di opposizione quanto di governo che permeino davvero la vita politica e sociale dei cittadini.

L’Unione, in questo, mostra tutti i suoi pericolosi limiti.

Non avere avuto come priorità la creazione di uno spazio civile in cui far crescere una “cittadinanza comune” non solo sulla carta ma nella quotidianità dei fatti e delle relazioni, oggi lo si paga in termini di riemersione di una serie di pulsioni nazionaliste che, tuttavia, non hanno la premura di rompere il giocattolo europeo; anzi, se ne vogliono servire per costruire loro quell’internazionale nera, comunque conservatrice e reazionaria, che non sarebbe stata nemmeno lontanamente immaginabile una ventina di anni fa.

Tutt’altro che stranamente questa Unione degli Stati europei condivide con una certa solerzia le peggiori, negative torsioni di un mercato che si pone come unico regolatore della vita dei popoli, mentre respinge qualunque tentativo di unificazione delle esigenze sociali, dei problemi che scavalcano i confini, delle grandi questioni dei tempi: dalle problematiche delle migrazioni a quelle delle guerre.

La sua vocazione monetarista e finanziaria privilegia esclusivamente ciò che porta giovamento alle centrali del capitale e dell’imperialismo continentale. Tutto il resto è di secondaria importanza.

Ma, alla fine, conduce ad una cospicua e progressivamente esponenziale crescita della povertà che si strutturalizza e che diviene la leva primaria per sovvertire ciò che rimane delle democrazie liberali di un tempo, degli impianti di stato-sociale conquistati dai vecchi partiti socialisti, socialdemocratici e comunisti, ed assistere così ad un mutamento costituente una nuova Europa in cui al centro vengono messi i singoli interessi nazionali convergenti su politiche in cui la contemplazione dei diritti sociali è pressoché assente, quella sui diritti civili è addirittura di nocumento per la vita e la dignità delle persone.

Non si può fare appello, ad esempio, alla galassia macronista affinché comprenda questo stato di rovesciamento dell’attuale condizione di crisi dell’europeismo come fenomeno sovrastrutturale del capitalismo liberista nel Vecchio continente.

E questo non perché Macron, Attal e i loro amici non siano in grado di capire la reale posta che vi è in gioco, tanto in Francia quanto nel resto dell’Europa; semplicemente perché essi stessi sono parte di un sistema che si illude di poter controllare le espressioni estreme di una politica che tende nuovamente a saldare protesta sociale e risposta nazionalista, escludente, discriminatoria, sessista, conservatrice e, quindi, reazionaria.

Modernamente tale. Perché ogni termine qui appena scritto va compreso (nel senso di incluso e anche capito) in una stagione dell’evoluzione liberista che sta premendo su diverse zone del pianeta con politiche belliche che sono rivolte alla determinazione di una geopolitica globale in cui il nuovo assetto multipolare deve trovare ancora una sua stabilizzazione, un equilibrio del tutto nuovo in confronto alla precedente, nemmeno tanto breve, fase unipolare a trazione statunitense.

Diversamente dai paesi poveri emergenti sul piano economico, l’Europa ha avuto, in tutti questi ultimi lustri, un ruolo di mediazione tra occidente ed oriente.

Gli interpreti interni di una politica di convergenze, ai soli fini dell’incontro di economie diverse, di tutela ovviamente dei mercati al di qual del Bosforo e nella zona euro-atlantica, sono stati, pur tra molte divergenze, la Germania, l’Inghilterra e la Francia.

La Brexit ha lasciato Parigi e Berlino quasi da sole ad assumersi una parte su una scena mondiale in cui l’Unione veniva percepita come istituzionalmente non adeguata al compito di rappresentante di una politica economica capace di rivaleggiare con i grandi poli finanziari che stavano per contendere il primato a Washington.

Questa insufficienza manifesta era data, ed è tutt’oggi simile ai decenni passati, da due fattori: il primo riguardava la concorrenza interna all’Unione tra le economie e le produzioni dei singoli Stati e, ugualmente, dei loro rapporti con Cina, India, Russia da un lato e Stati Uniti, America Latina dall’altro; il secondo concerneva invece il carattere proprio delle istituzioni europee e la loro intrinseca debolezza gestionale nelle politiche comunitarie e nell’applicazione delle direttive entro i perimetri dei Ventisette.

Nessuno dimentichi il fatto che i tassi di sviluppo, quindi di produttività e di composizione, ad esempio, dei salari sono talmente diversificati da continente a continente, da non lasciare dubbio sul vero posto di comando del capitalismo globale.

Ma l’Europa, nonostante sia stata spesso (e volentieri) al seguito del gigante americano, ha, nei brevi momenti di autonomia che si è forse riconosciuta troppo unilateralmente e autoattribuita, mancato proprio nella ricostruzione di una vasta rete di protezione sociale che la mettesse al riparo da rigurgiti neonazionalisti, identitari, patriotticamente propensi alla divisione piuttosto che ad una spinta verso una confederatività dei presupposti per la costruzione di una vera comunità riconoscibile sul piano interno ed internazionale.

Per fare un esempio tra i tanti, la lotta politicamente molto moderna sul salario minimo è stata affrontata con così diverse pulsioni e tendenze anche ideologiche da separare gli Stati dell’Unione piuttosto che unirli in una affermazione di un principio vecchio e nuovo al tempo stesso: quello della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati (anche di lungo corso) da uno scivolamento verso un piano di indigenza difficilmente risalibile e, quindi, punto di considerazione statistica e pratica di un ingrossamento dei margini del neopauperismo europeo.

Se raffrontiamo, ad esempio, la Francia e gli Stati Uniti, proprio riguardo alla questione del salario minimo, ci potremo rendere conto – come scrivono eminenti studiosi, Thomas Piketty fra tutti – che la stabilizzazione di una soglia al di sotto della quale ogni occupazione deve essere considerata quasi moderno schiavismo non è stata presupposto di un confronto comune che ha portato ad una sintesi condivisa nell’Unione.

Circa negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, gli USA utilizzarono il salario minimo per far crescere il livello delle retribuzioni, mentre, con l’arrivo della fase liberista abbandonarono questo strumento. La Francia fece l’opposto: a partire dall’espansione della nuova evoluzione globale del capitale, i governi di Parigi tentarono di mitigare i riflussi antisociali delle crisi cicliche del mercato con un utilizzo costante del salario minimo.

Nell’Europa del finire degli anni Novanta anche il Regno Unito introdusse un salario minimo nazionale. Il resto del Vecchio continente rimase praticamente immobile. La Germania parlerà di garanzie per il mondo del lavoro a questo proposito soltanto nel biennio 2013-2014 e, a partire dal 2015, entrerà in vigore una retribuzione minima per tutti i lavoratori pari a 10,45 euro l’ora, aumentata fino ad oggi a 12 euro. In Italia nemmeno a parlane.

E la conclusione di queste note potrebbe essere affidata alla solita, peraltro veritiera, rappresentazione dell’Unione europea come un organismo sovranazionale che non ha una status politico e organizzativo-istituzionale definibile in quanto tale come Stato, come federazione o confederazione, ma solo uno status economico e finanziario.

Torniamo allora al “paradigma francese” che è venuto meno. Alla vigila del voto per le legislative, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella è in testa ai sondaggi. Segue la coalizione di sinistra del Nouveau Front Populaire e, al terzo posto, i macroniani di Attal. La divisione o, per meglio dire, i tentativi di ricompattamento a destra dipenderanno anche dall’esito del primo turno del voto. La frattura nei gollisti e in Reconquête, con Ciotti e Maréchal verso la destra lepenista, potrebbe avere una certa incidenza ulteriore nel consolidamento del risultato delle europee.

Ma, proprio per dare un significato differente dal mero calcolo elettoralistico pre-voto, basato sui sondaggi e sulle percezioni, il dato più significativo è la fine, tanto in Francia quanto in Germania, del vecchio schema rappresentativo della politica nazionale: la dissoluzione dei vecchi partiti non è sicuramente imputabile all’oggi, ma la trasmutazione dello scenario complessivo della società francese è comunque figlio di un contesto europeo.

Quanto l’Europa sia stata contagiata dalla macronie è forse presto per poterlo affermare, visto che la partita è tutt’ora aperta e porterà, in tutta probabilità, sia che prevalga il Rassemblement National sia che prevalga il Nouveau Front Populaire ad una “coabitazione” (così la chiamano i francesi) tra un Macron che rimarrà al suo posto e un governo in cui Attal non avrà invece più il suo.

L’ultimo baluardo della vecchia Quinta repubblica, il partito gollista de les Républicains ha ceduto il passo, come del resto lo avevano ceduto i socialisti in precedenza nei confronti delle formazioni emergenti tanto a sinistra quanto al centro, ad una rappresentazione delle istanze nazionali su un terreno sovranista sul piano ideologico e conservatore nazionalista su quello economico.

Marine Le Pen si presenta e presenta il suo “Fron National” imbellettato da moderna espressione di un sincretismo tra attaccamento ai vecchi stereotipi della retorica paterna, che sa molto dell’almirantiano “non rinnegare, non restaurare“, e rinnovamento giovanilista con un Bardella che avrebbe il ruolo dello sdoganatore ormai completo col passato neofascista.

L’Europa non viene più dichiarata nemica della Francia, perché l’obiettivo è, al pari del melonismo italiano, il governo di una nazione a cui si arriva con il sostegno della grande borghesia affaristica, padronale e finanziaria. Il paradigma della vecchia politica d’oltralpe, dunque, è se non completamente, almeno in larga parte saltato e i vecchi schemi interpretativi funzionano davvero male se si prova a comprendere l’oggi con le categorie dell’ieri.

Di sicuro, il risultato delle legislative francesi avrà le sue ricadute anche sulla formazione del cosiddetto “governo europeo“, di quella Commissione che si appresta ad essere nuovamente guidata da Ursula von der Leyen e a rappresentare, dunque, una perfetta continuità con la trasversalità tra socialdemocratici e centristi popolari con uno sguardo alla destra liberale e moderata.

Il governo della Francia sembra dunque affidato ad una coalizione non amica nel migliore dei casi (per Bruxelles, non certo per i francesi…) della nuova Commissione, apertamente avversaria della stessa se dovesse prevalere – come ci auguriamo – il Nouveau Front Populaire. Vorrebbe dire, in quest’ultimo caso, costringere tanto i macroniani in patria quanto quelli al tavolo del governo europeo, a fare i conti con una sinistra intenzionata a favorire il ruolo pubblico e sociale delle istituzioni.

Sarebbe un bel cambiamento, perché la Francia, lo si voglia o no, era, è e rimarrà uno dei cuori pulsanti di un’Europa sempre più stanca di sé stessa e facilmente degradabile sotto il peso e la spinta dei populismi, del conservatorismo e dell’autoritarismo ispirato dalle destre.

MARCO SFERINI

29 giugno 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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