La nostra anima politica è parte della storia della sinistra. Di quella tradizionale – perché il manifesto nasce dopo espulsioni e radiazioni dal Pci – e di quella alternativa nata dopo il ‘68.
E per più di 50 anni, grazie a questo giornale, abbiamo cercato di tenere vive, nella nostra narrazione giornalistica e politica, le due esperienze, cercando di cogliere sempre il meglio di lotte politiche, sociali, culturali, e di criticare le chiusure, le rigidità, gli ideologismi.
Non sempre riusciamo a tenere accesa la nostra «fiaccola». Tutt’altro. E lettrici e lettori hanno il diritto di non essere d’accordo con le posizioni che assumiamo, con ciò che scriviamo con sincerità, franchezza, trasparenza, difendendo con tenacia e orgoglio, l’autonomia, l’indipendenza, la libertà.
Perché non abbiamo – né vogliamo – padrini e padroni. Economici e politici. Dico questo per sgombrare subito dal campo della discussione una delle critiche mosse da chi ci ha scritto in risposta all’editoriale sulla «Sinistra del piccolo mondo antico», sollecitato dal pessimo risultato elettorale delle liste di una parte della sinistra.
Non vogliamo, non ci interessa, non è nel Dna del manifesto, portare acqua al mulino del Partito democratico, che consideriamo una forza governativa di centro, ma nei confronti del quale ci comportiamo in modo chiaro come verso un interlocutore dell’area progressista. Non perseguiamo l’alleanza con il Pd «a prescindere», come scrive Maurizio Acerbo. Né crediamo che «l’unico orizzonte politico degno di nota sia quello accanto, all’ombra del Pd», come sostiene Giuliano Granato.
Più semplicemente pensiamo che in politica, se si ha l’ambizione di governare, o, ancora prima, se si ha l’intenzione di conquistare una rappresentanza istituzionale, allora sono fondamentali i numeri. E senza i voti del Pd, non si costruiscono governi locali e nazionali. Come sono fondamentali, per un governo progressista, anche i voti del 5S: lo hanno dimostrato i candidati progressisti eletti a Bologna e Napoli, che non avrebbero vinto al primo turno senza il sostegno di una vasta area democratica.
Senza dimenticare, come abbiamo peraltro scritto a proposito dell’analisi del voto, che il 3- 4 ottobre «hanno perso anche quelli che hanno vinto», per la perdita di voti assoluti e per l’astensionismo record.
La critica, che muoviamo da sempre, riguarda la mancanza di unità tra le numerose forze che vivono, vivacchiano, sopravvivono, a sinistra del Pd, e che mettono al primo posto le proprie bandiere, le proprie ragioni, la propria identità. Un argomento che Acerbo stesso condivide all’inizio del suo commento quando scrive «da mesi esprimo sconcerto di fronte al florilegio di liste con o senza falce e martello che hanno deciso di non convergere su un’unica candidatura a sindaco…».
Dovrebbe essere anche abbastanza chiaro che la riflessione non riguarda le lotte, le battaglie, le storie collettive di tante organizzazioni che si muovono a sinistra, mantenendo fermi alcuni princìpi, obiettivi, valori che rischiano di scomparire o di essere accantonati, se si è malati di governismo. E sentiamo profonda condivisione verso chi si mette in gioco, chi difende i diritti, chi è dalla parte degli oppressi, dei lavoratori, dei più deboli. Noi al manifesto abbiamo sempre lavorato per questo.
Però proprio in nome di questo rispetto, siamo convinti che gli impegni e gli obiettivi politici avrebbero più peso se fossero portati dentro le istituzioni dalla sinistra. Ma per raggiungere questo traguardo va evitato, appunto, il «florilegio».
Lettrici e lettori – che in primo luogo ringrazio – hanno inviato mail per esprimere dissenso o per condividere. È normale che sia così. Però c’è qualcosa che fa parte della cultura democratica e che oggi invece viene dimenticato: la dispersione dei voti.
Allora mi chiedo: esiste una responsabilità politica verso il mondo di riferimento oppure conta soprattutto l’affermazione di se stessi? Perché se a Roma le liste Partito Comunista, Pci, Potere al Popolo, Sinistra Rivoluzionaria, Roma Ti Riguarda, prendono in media lo 0,5 per cento dei voti, è giusto o no domandarsi che senso ha avuto la partecipazione elettorale? Se a Milano 5 liste della sinistra radicale hanno meno consensi del senatore populista Paragone, è sbagliato sostenere che sarebbe stato meglio presentarsi uniti?
Se queste domande appaiono come «tradimento della causa», possiamo solo che prenderne atto. Però non è così. Non è mai stato così, perché sappiamo che non poche compagne, non pochi compagni, che leggono il manifesto hanno votato per le diverse liste di sinistra. Tuttavia devo ricordare che la rappresentazione elettorale ultra frammentata è ormai una «tradizione» consolidata che, secondo noi, dovrebbe essere finalmente abbandonata. E stavolta i limiti della auto rappresentazione sono stati superati.
Certo che mettiamo in evidenza le esperienze di sinistra e ambientaliste che hanno ottenuto dei buoni risultati. E non perché ci sono più simpatici Fratoianni o Elly Schlein, ma per il loro tentativo unitario. E non c’è nulla di scandaloso se l’unità di intenti comporta un cammino comune con il Pd. A meno che non si consideri questo partito un «nemico da abbattere», come mi sembra di cogliere tra le righe di qualche lettera. Per noi invece è, e rimane, un componente del campo progressista con il quale bisogna confrontarsi e, se necessario, possibile, giusto, allearsi per sconfiggere gli avversari, o meglio, i nemici che sono e restano i fascio-leghisti (come verosimilmente avverrà ai ballottaggi).
Questo significa essere subalterni? Liberisti? Filo-Draghi?
Magari se il manifesto venisse letto più frequentemente e con maggiore attenzione, si eviterebbero certe affermazioni quanto meno superficiali. E a proposito di lettori, certo che siamo minoranza. Però, Luca Fini, lo siamo sempre stati. E quella percentuale di copie vendute in edicola, che in realtà è più alta, è storicamente sempre la stessa.
Noi paghiamo, come tutti gli altri quotidiani, la crisi profonda e irreversibile della carta stampata. Ma non abbiamo ambizioni velleitarie, non ci candidiamo a sindaco a Roma o a Milano. Abbiamo però questa convinzione: nonostante il numero di copie vendute, siamo convinti di avere lettrici e lettori della sinistra nelle sue varie versioni. Ed è per questo che pensiamo di non essere minoritari.
Proprio perché penso sia possibile «costruire una sinistra, con la massa critica sufficiente, autonoma e alternativa al Pd», ritengo un gravissimo errore andare alle elezioni solo per amore di bandiera. Aggiungo, che la dispersione elettorale è il più grande favore che si possa fare al Partito democratico: il Pd, grazie a voti perduti nelle urne, resta quasi unico rappresentante di un’area molto più vasta. Anche elettoralmente.
A Luigi Caputo che ci ha scritto (non riusciamo a pubblicare tutte le lettere) polemizzando sulle liste-flop, capolista Valpreda, del manifesto del 1972, ricordiamo che la scelta di presentarsi alle elezioni – non eravamo un partito – fu preceduta da un aspro dibattito interno, con una frattura tra Luigi Pintor da un lato e Rossana Rossanda e Aldo Natoli dall’altra. La sconfitta fu bruciante, e venne accompagnata da una profonda autocritica. Che poi portò a scelte diverse, tant’è che alle elezioni successive del 1976 ci fu l’alleanza del Pdup (ex Manifesto) con Avanguardia Operaia e Lotta Continua, che sfociò nelle liste di Democrazia proletaria, ottenendo una piccola pattuglia parlamentare.
Chiedo: le forze, i militanti, i dirigenti delle liste chiamate adesso in causa, sono in grado di avviare un processo autocritico oppure preferiscono lamentarsi per l’editoriale del manifesto?
Ugo Menesatti, Roberto Pietrobon, Stefano Proietti hanno colto il significato del commento post-elettorale e li ringrazio per le osservazioni critiche e garbate (che non guasta mai) per le sollecitazioni e i suggerimenti. Uno dei quali è già nelle nostre intenzioni, avendo a cuore due obiettivi: una riflessione ampia, aperta, profonda tra le forze di sinistra e democratiche sulla costruzione di una organizzazione politica che riesca a mettere insieme le tante anime della sinistra. È un progetto ambizioso? Sì. È realizzabile? Sì, pur sapendo che unire è difficile. Ma non dovremmo mai dimenticare che l’unione fa la forza.
NORMA RANGERI
da il manifesto del 14 ottobre 2021
La risposta del segretario nazionale di Rifondazione Comunista all’editoriale post-elettorale della direttrice de “il manifesto”
L’enorme problema della frantumazione. Non rassegniamoci
Da mesi esprimo sconcerto di fronte al florilegio di liste con o senza falce e martello che hanno deciso di non convergere su un’unica candidatura a sindaca/o. Temo che neanche i magri risultati indurranno a una riflessione alcune di queste formazioni.
Per noi di Rifondazione Comunista questa frantumazione costituisce un enorme problema. Ne esce delegittimata e ridicolizzata una sinistra radicale che invece ha molte cose da dire. Offre una giustificazione per cancellarci su media e giornali. Disincentiva l’impegno diretto e persino il voto. Però la ricetta che propone Norma Rangeri non mi convince.
Non mi sembra che la questione principale sia la difesa del «piccolo mondo antico immobile nella conservazione della propria identità».
Queste formazioni sono nate negli ultimi anni e semmai a sinistra da tempo poco si valorizza una storia e categorie analitiche che avevano forti radici popolari. Altrove in Europa e in America Latina pluralità non fa a pugni con unità. Basti pensare a Unidas Podemos in Spagna con due ministri e la portavoce con tessera del Pce.
È vero che da un lato c’è il settarismo di alcuni, ma dall’altro c’è una parte della sinistra, che Rangeri incoraggia, che persegue l’alleanza organica con il Pd a prescindere.
Perché nelle grandi città non si è costruita una coalizione di sinistra e ambientalista che avesse la forza di costituire un punto di riferimento visibile e in grado di costringere a discutere di questioni come lavoro, immobiliarismo, privatizzazioni e esternalizzazioni dei servizi, ecologia?
Solo colpa dei settari? Cinque anni fa uniti avevamo eletto ovunque in autonomia. A Torino non era possibile convergere su Angelo d’Orsi (un 2,5% da valorizzare) invece di stare con un esponente del «sistema Torino» e dei sitav? A Milano, dove la lista di Sinistra italiana ha preso meno dell’1,6% del nostro candidato sindaco e non elegge, non era doveroso presentare con «Milano in Comune» un’alternativa rossoverde all’immobiliarismo della giunta Sala? Nel caso di Roma è disperante l’isolamento che ha incontrato la davvero coraggiosa disponibilità di Paolo Berdini. Come può cantare vittoria una sinistra che si dice all’opposizione quando la sintesi dei risultati che immediatamente traccia il segretario del Pd è proprio il rafforzamento del governo Draghi?
Rangeri non valorizza l’esperienza calabrese forse perché lì un risultato storico come il 16,2% è stato ottenuto in alternativa al centrosinistra. In Calabria tutta la pur debole sinistra era unita intorno a una candidatura come quella di Luigi De Magistris e alla presenza nelle liste di Mimmo Lucano. Due nomi che non potevano essere oscurati. Tanti settori della cultura, del volontariato, dell’associazionismo, dei movimenti hanno partecipato con entusiasmo. Qualcosa di simile non era possibile farlo nelle grandi città e perché lo si è scartato a priori? Di fronte alla debolezza della sinistra radicale la soluzione «non minoritaria» che Rangeri propone è quella di una sinistra «coraggiosa», cioè che abbia il coraggio di allearsi col Pd, in realtà rassegnata al bipolarismo.
Ci sarebbe da fare un bilancio sull’efficacia di questa linea che non è certo nuova. Si sono visti significativi cambiamenti nell’impianto programmatico del Pd che è saltato da Monti a Draghi, sempre fedele alle «tavole» di Maastricht e sull’attenti rispetto a Usa e Nato fino a salire sul palco filoisraeliano durante il bombardamento di Gaza? Vogliamo calcolare l’impronta sociale e ecologica di quello che Nancy Fraser definisce «neoliberismo progressista» in termini di crescita delle disuguaglianze, scuola, sanità, casa, diritti del lavoro, bassi salari, pensioni, privatizzazioni, disoccupazione, devastazione ambientale, spese militari, violazioni dei diritti dei migranti, ecc.?
Non c’è il problema di una forza autonoma che provi a cambiare la narrazione e l’agenda come fecero i primi socialisti liberandosi dalla subalternità ai liberali? C’è necessità o no di un’opposizione popolare, antiliberista e anticapitalista, ambientalista, femminista, pacifista che proponga un’alternativa? Non è il caso che discutiamo sul come costruirla a partire dalle lotte in corso?
Le dimensioni dell’astensionismo e la nostra comune debolezza dovrebbero indurci a non cedere alla rassegnazione.
MAURIZIO ACERBO
da il manifesto del 14 ottobre 2021