Siamo già al terzo indizio che fa una prova. Lo sosteneva Agatha Christie: un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, tre sono per l’appunto una certezza che il sospetto che si aveva è divenuto reale e che, quindi, si passa dall’ipotesi alla verifica pratica, oggettiva, concreta. L’Europa non va alla guerra, è già in guerra. Di indizi se ne possono trovare quanti ne si vogliono. Il piano di riarmo è qualcosa di più di un presupposto: la riorganizzazione del Vecchio continente da accrocchio di Stati a polo strategico per il fronteggiamento della fase di crisi nel multipolarismo moderno fa intendere che il capitalismo qui ed ora vuole predisporsi offensivamente.
La vittoria trumpiana negli Stati Uniti d’America ha messo fine a qualunque possibilità di recupero della collaborazione che, forse, gli organismi internazionali di controllo avevano dato per realizzabile o, quanto meno, raggiungibile attraverso degli accordi. I dazi al venticinque percento non erano stati obiettivamente calcolati come una minaccia seria. Ed invece si sono concretizzati nel giro di soli tre mesi di presidenza del grande magnate del MAGA. La dittatura delle élite a stelle e strisce si impone attraverso un indurimento delle regole neoliberiste che si abbatte su un’Europa ancora abituata al compromesso tra le classi.
In America si taglia corto: basta con il dialogo sindacale, basta con la considerazione della globalizzazione come fenomeno oggi multipolare. Washington vuole poter gareggiare sulla scena mondiale per ritornare ad una unipolarizzazione a propria guida; questa contesa, chiarissima nella voglia di risoluzione della guerra in Ucraina per poter concentrare le proprie risorse anche militari sul fronte del Pacifico contro il gigante cinese, ha tre attori principali: Trump, Putin e Xi Jinping. L’Europa di von der Leyen, Macron, della trasformazione germanica e della Gran Bretagna di Starmer, fuoriosamente bellicista, cosa sta provando a salvare? Sé stessa?
Sì, senza dubbio. L’istinto di sopravvivenza prevale rispetto a qualunque altra presunta priorità. Ma è anche piuttosto certo il fatto che, al di fuori della sfera di influenza dei grandi imperi che aprono una nuova contesa mondiale, l’Unione Europea è un vaso di coccio tra vasi di ferro. Lo dimostrano non solo le sprezzanti parole di Trump e Vance che irridono il ruolo dei Ventisette, ma anche e soprattutto l’isteria da sindrome dell’accerchiamento che le classi politiche dei singoli paesi sembrano ormai aver introiettato con una rapidità davvero inusitata.
Mentre la trattativa sul destino dell’Ucraina procede sul tavolo bilaterale tra USA e Russia, in questi giorni si è sempre meno fatto riferimento alla NATO e sempre più ad una “coalizione di volenterosi” che dispongano nel teatro di guerra una “forza di rassicurazione” sotto egida dell’ONU e con lo scopo di addestrare i militari di Kiev e fungere da deterrente per evitare una seconda invasione, una ripresa di un conflitto che – è bene ricordarlo – si sta tutt’ora tenendo su ambedue i lati del fronte. Il tentativo di costruire un esercito europeo pare un modo per marcare le distanze da una sola difesa affidata all’Alleanza atlantica (di cui gli Stati Uniti sono una parte fondamentale) senza però troncare rapporti o minacciarne l’uscita dei maggiori contribuenti e vecchi alleati.
Quelle che possono sembrare le eccentricità della politica trumpiana rientrano, invece, in un preciso calcolo politico che oggi si affida ad una tattica di ricomposizione delle difformità interne su un terreno di competizione rivolto al resto del mondo: per fare nuovamente grande l’America, i proponitori del modello MAGA recuperano tutta una storia antica di sconvolgimenti economici e sociali che sono approdati, dalla seconda metà del Novecento ad oggi, ad un risultato inaspettato perché imprevedibile. Questo risultato è l’impostazione neoliberista da un lato e il tentativo neoimperialista e fintamente autarchico dall’altro.
Trump minaccia un’Europa che prova a darsi ancora delle regole commerciali, finanziarie, mitigando di poco gli eccessi del mercato e, parimenti, minaccia la Cina dal chiaro profilo statalista. Tre modelli di capitalismo moderno si contendono la scena globale, l’egemonia mondiale, il dominio strutturale economico: Washington fa della teorizzazione di una nuova “età dell’oro” il presupposto di un rilancio del dollaro come divisa regolatrice degli scambi universali; Mosca, anche nell’alleanza BRICS, intende contrastare questo progetto e ridare fiato al vecchio sogno putiniano di riconquista russa dei vecchi confini dell’URSS; Pechino, dopo essere penetrata nel cuore delle economie degli Stati africani, guarda ora al sogno globale.
A sottovalutare il peso dello Stato nella nuova fase dell’iperliberismo, differentemente declinato nei vari poli di attrazione del mercato e di sfruttamento conseguente dei miliardi di salariati che pullulano nel mondo, sembra essere proprio l’Europa. Parte svantaggiato il Vecchio continente che non è una confederazione di Stati, non uno Stato unico, non è nemmeno sulla via di un processo costituente che vada nella direzione auspicata dai più solerti amici del capitalismo occidentale: quella degli Stati Uniti d’Europa. Cina e USA sono, da questo punto di vista, due mammutici, titanici e solidi apparati governativi, retti ormai da regimi che poco hanno a che vedere col comunismo da un lato e con la democrazia liberale dall’altro.
L’Europa, in questa guerra economica e in questa economia di guerra, affronta un declino di una parte dell’atlantismo di vecchia data: si è incrinato l’asse tra Bruxelles e Washington e il tentativo disperato delle élite politiche liberiste di Francia, Regno Unito e Germania nel provare a rappresentare una quarta via rispetto alla ristrutturazione imperialista e multipolare in atto, fa quasi tenerezza tanto è ingenuo perché tanto preso dal panico dello sconvolgimento globale e rimasto al palo, tanto per fare un esempio, sulle trattative per un cessate il fuoco permanente in Ucraina. Le politiche economiche della UE, pur nella centralizzazione tentata in questi decenni, sono andate per il mondo in ordine sparso.
Il Trattato di Lisbona del 2009 ha disposto che ogni decisione della Commissione dovesse necessariamente passare per il voto del Parlamento europeo prima di divenire esecutiva. Nonostante fosse previsto il voto a maggioranza semplice, tutta una serie di pratiche si è impantanata, mentre un’altra è passata con numeri risicati e, per questo, ha diviso l’Unione creando un effetto parossistico interno alle istituzioni continentali così come nei singoli governi e parlamenti nazionali. Ogni decisione sembra quindi penalizzata da un processo apparentemente democratico e che, in realtà, quando riesce nel suo intento impone un principio di maggioranza su questioni che finiscono col privilegiare le economie dei paesi più ricchi, penalizzando gli altri.
Quando Trump afferma di voler superare la questione del New green deal, agisce di conseguenza implementando le risorse per un aumento delle trivellazioni in direzione di un grande investimento sulle energie fossili che sono in competizione con lo sviluppo delle tecnologie per la produzione di quella che viene definite l'”energia pulita”. In Cina si riscontra il maggiore investimento proprio per queste ultime avanguardie della compatibilità tra sviluppo e sostenibilità ambientale. Negli Stati Uniti siamo al testa a testa. L’Europa, anche su questo settore molto importante per la competizione globale, deve per forza procedere nella direzione verde, altrimenti l’attuale divario che la separa tanto da est quanto da ovest diventerà incolmabile.
I tre capitalismi precedentemente citati si sfidano, come si può evincere, su tutti i terreni possibili: materiali e ipotetici, reali e concretizzabili nel giro di qualche generazione. In questo quadro, ovviamente lo stato di guerra permanente ha modificato radicalmente gli equilibri precedenti; non di meno ha fatto il biennio pandemico. Per un certo periodo il liberismo ha puntato sull’Impero di Mezzo come elemento dirimente nella fase di ristrutturazione economica e finanziaria: la crisi del 2008-2009 aveva, del resto, segnato le certezze che si potesse fare affidamento, nel periodo più alto della presunzione unipolare statunitense, sul modello americano come unica via d’uscita dalla crisi incedente.
Viene da domandarsi se il liberismo abbia provato una sorta di ostilità nei confronti del nazionalismo rinascente. Soprattutto allora, visto che la vittoria di Trump sembra aver dipanato qualunque ombra sul fatto che oggi non si più così. Ovunque, la competizione multipolare lascia intravedere un connotato fortemente nazionale pur in un contesto più ampio dei soli confini di uno Stato, di una potenza o superpotenza che dire si voglia. Quello che è profondamente mutato, a volte prescindendo dalle singole volontà governative, perché il gioco è davvero enorme e non sempre controllabile da tutti i giocatori, è l’insieme: a partire dagli sconvolgimenti naturali che sono il prodotto di scelte non rimediabili nel giro di pochissimo tempo.
La natura, così, diviene un quarto attore in campo, quello più ingestibile, perché defraudato della sua specificità per imporre un sistema di produzione e di consumo che non è sostenibile sul lungo periodo. Ma, a dire il vero, nemmeno sul breve, visti i risultati in soli due secoli e mezzo di sviluppo industriale e in un secolo di globalizzazione. Siamo di fronte, certamente ad un declino tanto americano quanto europeo e, quindi, ad un crollo di un atlantismo che è stato fino a poco tempo fa il controcanto del resto del pianeta. Russia e Cina hanno incrinato il “sogno americano” che, oggi, Trump, a discapito di tutte le libertà costituzionali e dei diritti fondamentali, vuole rieditare e proporre con una prepotenza davvero inaudita.
Le notizie che arrivano da tutti i canali di informazione, con una immediatezza che è insieme croce e delizia, ci parlano di un’Europa sull’orlo di una crisi di nervi: nemici da tutte le parti, amici e partner commerciali più verso la Via della Seta rispetto al canale privilegiato d’un tempo con lo Zio Sam. Che cos’altro è, se non una vera e propria sindrome isterica, l’appello, anzi il piano di difesa e di preparazione alla stessa per tutti i cittadini europei che include scorte per settantadue ore riguardo medicinali, cibo e batterie per telefonini, computer, tablet? Un prontuario di prima emergenza per tre giorni. E poi? Che si fa? Riarmo, spese belliche alle stelle, considerazioni nazionali sulla leva e sulle riserve…
Forse nemmeno nel 1914 la tensione era così alta. C’è da preoccuparsi seriamente. Perché, quant’anche si possa ritenere lontanissima l’eventualità di un conflitto in Italia, in Francia, in Germania o in Gran Bretagna, le dichiarazioni di questi scriteriati che gestiscono le politiche nazionali avvicinano sempre di più l’ora delle nuove decisioni irrevocabili.
MARCO SFERINI
28 marzo 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria